VERMIGLIO” (2024), regia di Maura Delpero

Del mio scudo si fa bello uno dei Sai. Presso un cespuglio lo dovetti lasciare e mi dispiacque : che bellezza di scudo! Ma salvai la pelle! Al diavolo! Non me ne importa più nulla, ne avrò un altro migliore!

E’ questa in sintesi la tesi di ”Vermiglio”, il film di Maura Delpero, già “Leone d’argento” a Venezia (2024) e già scelto per rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar. Ottima accoglienza dunque e ottimo lancio!

Lontanissimi nel tempo e nello spazio, i sopra citati versi di Archiloco (poeta greco del V sec. A.C.), riassumono, se non la trama, il nocciolo di essa: la guerra e tutti i suoi disastri, il prima e il dopo, l’angoscia dell’attesa  da parte delle famiglie di coloro che sono stati costretti a partire, il ritorno mai scontato e non sempre, quando avviene, nella giusta direzione, con tutte le conseguenze del caso. Effetti collaterali di quella che è una “sconfitta”, ancor prima che si combatta, come ammonisce Papa Francesco.

Un soldato disertore, Pietro Riso, piomba improvvisamente in quel di Vermiglio, villaggio di poche anime, appollaiato sulle Alpi Retiche e scompiglia la vita di questo tranquillo borgo di montagna, quasi sempre sepolto da una  spessa coltre di neve sotto la quale covano sogni, misteri, ingenue ambizioni e una voglia inespressa, e forse neanche del tutto consapevole, di fuggire da una realtà gelida e soffocante. La vita scorre con un ritmo lento, scandito dal trascorrere dell’avvicendarsi delle stagioni, che solo la musica addolcisce, quella che il maestro del villaggio, Cesare Graziadei, fa ascoltare anche in classe, per inculcare, in quelle testoline pigre e svagate, il gusto dell’arte, della bellezza che certo, non soltanto le nozioni grammaticali e i rudimenti di aritmetica,  possono garantire. Passano così le giornate; i bimbi, anche i figli e le figlie dell’unico maestro, vanno a scuola e poi danno una mano in casa. Le ragazze accudiscono la numerosa prole che le mamme partoriscono puntualmente ogni nove mesi. I ragazzi, quei pochi rimasti che la Patria non ha chiamato, si sforzano di combattere quella miseria alla quale sopravvivono con pazienza e rassegnazione. E’ quello che si legge dalla scena, quasi sempre immersa nella luce grigia dell’inverno altoatesino, che la fotografia di Michail Krichman,  accentua quasi a significare quanto lo   si sopporti  a stento e a prezzo di sacrifici e duro lavoro. E’ evidente, come molti critici hanno sostenuto, il debito di quest’opera all’ “Albero degli zoccoli” , ma di quel capolavoro, manca la “pietas”,  affiora appena  il senso religioso della vita col quale nel film di Olmi, si sublimava la fatica  e il mondo appariva tendere verso un’armonia che  rendeva meno aspra anche la lotta di classe. Tale rimando cinematografico dunque  non è del tutto plausibile, piuttosto io ravviso il disincanto di Bertolucci, il sapore della provincia   come ce l’ha descritta Pupi Avati, quell’amarezza di fondo, quel suo  sguardo lucido, ma sempre affettuoso. Un simile approccio guida, in questo film la mano della regista, la stessa che ha dato prova in “Maternal”, suo primo lungometraggio, di  notevole maturità espressiva nel dirigere contenuti drammatici: la maternità delle madri-bambine, facendoli aderire ad una forma apprezzabile, senza scadere nel patetico e in facili moralismi. In questa sua seconda fatica la Delpero ci parla invece, del suo luogo dell’anima, quello dove sono nati i suoi avi; pertanto crea, per riviverlo, suggestivi effetti scenografici  che lo ammantano di  un’aura di fiaba, ma i colori sono quelli del rimosso, non  di una memoria da cui non si vuole prescindere, ma al contrario  di un vissuto da respingere nel più profondo dell’inconscio, perché non affiori mai più. E perché dovrebbe’? C’è un delitto di mezzo: Pietro, il soldato disertore, non rivela  di essere sposato, pertanto sposerà l’ingenua Lucia, la figlia del maestro e sarà bigamo! Bigamo, una parola nuova  con cui i bambini, incuriositi, sentendola pronunciare dai grandi, arricchiranno il loro lessico, povero del resto, come quello degli adulti, che parlano solo il dialetto. Anche questa scelta della regista di attenersi al dialetto per tutto il film, sottotitolandolo, è encomiabile. Esso  dà colore e autenticità ai dialoghi, che sono scarni ed essenziali come semplice ed essenziale è la vita  a Vermiglio. Le immagini, cornice pittoresca entro la quale si muovono, come in un tableau vivant, gli abitanti del villaggio, ci racconta di loro che esistono, ma che non  vivono! Gli attori, perfettamente calati nei rispettivi ruoli, recitano in maniera corale, nessuno tende ad emergere più degli altri; professionisti e non,  tutti contribuiscono a comporre e a  rendere l’idea di un mondo, dove, se anche non si è felici, si respira aria di fratellanza e solidarietà.  E la cultura, che pure il maestro, un meditabondo Tommaso Ragno, si sforza di trasmettere, è un obbligo del cui valore si stenta a rendersi conto. Siamo negli anni ’40 dello scorso secolo, l’Italia  è ancora quella rurale, la cui popolazione, da nord a sud, è in gran parte composta  da  contadini e pastori che l’industria non ha ancor attratto e fagocitato. E’  quell’Italia, soggetto ideale di quei pittori che scelsero la macchia, il semplice tocco di colore,  per rendere più vere e naturali, le loro opere. E ad essi attinge  la regista, da essi trae ispirazione per  i costumi, l’atmosfera, le sfumature di luce;  da  essi, da quell’arte che Antonio Gramsci definì “nazional-popolare”, perché accompagnò  la rivoluzione italiana  e ne fu il simbolo. Tale scelta da parte dell’autrice non è solo un espediente scenografico; infatti,  quest’opera vuole essere, a sua volta, l’input per una rivoluzione universale che sarebbe banale definire  solo ecologica poiché è la spinta ad una rinascita, a un rigenerarsi per l’umanità che vaga alla ricerca di se stessa, ignorando un passato che,  per quanto doloroso, anzi proprio per questo, in verità, ha ancora tanto da suggerire e insegnare, agli uomini,  come alle donne in egual misura. Un padre che discrimina e seleziona i suoi stessi figli e pretende di decidere  del loro destino; non fa i conti con la storia  che intanto avanza inesorabile e sconvolge i piani di tutti. Le donne fragili e sottomese, rassegnate ad un’unica prospettiva, quella di allevare i pargoli, verranno infatti scosse da un terremoto che, ad una latitudine uguale e contraria, esploderà-vedremo- in forme violente e devastanti. E’ la stessa Italia, il teatro del dramma che il film racconta: il Trentino e la Sicilia, sono due regioni di quel paese che negli anni in cui è ambientata la vicenda, attendeva ancora il suo riscatto, quel miracolo che poi visse e  di cui oggi si celebra “il De profundis”. Donna è Lucia, donna è la moglie abbandonata da Pietro, che si fa giustizia da sé. Entrambe sono due facce della stessa medaglia, vittime di quel degrado, di quell’arretratezza mentale, culturale e politica, che, per esempio, imponeva come scuola dell’ obbligo soltanto l’istruzione elementare; la secondaria arriverà dopo 22 anni!

 W l’Italia” dunque “l’Italia tutta intera”! Cantava De Gregori.

E pazienza se le donne soffrivano! Il dolore le riscatterà, tornerà il sorriso sui loro volti segnati da rinunce e miseria fisica e morale. Svestiranno i panni delle contadine, e con abiti più moderni e pratici partiranno per la città, in cerca di lavoro. Non è che un primo passo verso l’emancipazione, strada lunga e a tutt’oggi scandalosamente in salita! Vale per tutto il mondo, non solo per l’Italia!   Il recupero del passato da parte della Delpero, non ha solo valore  affettivo nei confronti di quello che lei stessa ha definito il “suo piccolo mondo antico,  non è il rimpianto per una vita semplice, quando l’uomo viveva in simbiosi con gli animali; e pecore, mucche e galline gli davano sostentamento, calore e “compagnia”;  per lei tornare alle radici, apprezzarne i valori e i limiti, è un percorso imprescindibile per guardare al futuro con piena consapevolezza, impegnandosi per costruirlo, non attendere passivamente che arrivi, sì da poterlo vivere, non subire!  

La scena finale è un tripudio di tenerezza: quella gioia felice che si legge sul volto della bimba che tende le braccia alla madre che ha dovuto affidarla alle suore, per poter lavorare, vale più di mille parole:  è un arcobaleno steso sui cieli dell’avvenire!

                                                                             Jolanda Elettra Di Stefano

Regia: Maura Delpero

Sceneggiatura: Maura Delpero

Attori  protagonisti: Giuseppe De Domenico: Pietro, Martina Scrinzi : Lucia, Tommaso Ragno: Cesare Graziadei,  Carlotta Gamba:  Virginia,  Roberta Rovelli:  Adele, Santiago Fondevila:  Attilio,  Rachele Potrich:   Ada,  Sara Serraiocco

Fotografia:  Michail Kricman

Montaggio: Gian Luca Mattei

Musica:  Matteo Franceschini

Scenografia:  Vito Giuseppe Zito,  Pirra

Costumi:  Andrea  Cavalletto

  

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