Anatomia di una caduta (2023) regia di Justine Triet

 Anatomia di una caduta”, di una caduta di stile, intenzionale e dichiarata, rispetto al modello insuperabile in cui brillava James Stewart, diretto da Otto Preminger. Ed è a lui che Justine Triet, la regista, rende omaggio innanzi tutto e poi va per la sua strada, confezionando un prodotto di qualità che pecca di perfezione ma lascia freddi, anzi congelati, data la temperatura  e l’atmosfera dei luoghi in cui è ambientato, non perché ci si aspettasse un finale chiaro e inequivocabile, ma perché ad esso si arriva attraverso un contorto iter giuridico che non fa luce su nulla e scredita il valore stesso della legge. Non può che essere motivo di orgoglio per noi donne constatare che la regia al femminile si  stia sempre maggiormente affermando e riscuota notevoli  consensi,  poiché però l’arte non può e non deve esigere le quote rosa, ignominia delle necessità in politica, cercheremo di sviscerare di questa quarta fatica di Justine Triet pregi e difetti alla ricerca, non  della verità che non interessa più a nessuno, ma della novità, il dato sorprendente che ci convinca che è nata davvero una nuova era, quella che vedrà,  sulla sensibilità, sulla grazia e sull’intelligenza intuitiva dell’altra metà del cielo, avvitarsi il perno di una ricerca che indichi orizzonti sempre più vasti e inesplorati. Anatomia di una caduta “Palma d’oro al festival di Cannes - 2023” ha tutti i requisiti per appagare questa speranza, ma non convince del tutto poiché consta di una “summa” di stereotipi la cui originalità consiste nell’averli capovolti e riproposti meccanicamente  solo con qualche variante,  per poi elaborare un finale sbrigativo e irritante tanto quanto lungo e prevedibile è  il dipanarsi del racconto che ha  tutti gli ingredienti del thriller, ma manca quello fondamentale:  la suspence! Assistiamo sin dall’inizio alla distruzione di un nido d’amore, in questo caso, adagiato sulla neve: incomprensioni piccole e grandi hanno da tempo fatto il vuoto nel cuore dei due coniugi protagonisti della vicenda Sandra e Samuel (Sandra Huller e Samuel Theis);  lei scrittrice di chiara fama, lui ex professore, altrettanto affascinato dall’arte della parola che per tanti anni ha insegnato, sogna di realizzare un’opera che possa portarlo al successo,  come quello che può vantare la moglie, ma qualcosa lo blocca. Una preoccupante forma di depressione, dovuta a un profondo senso di colpa, scatenato dal gravissimo incidente di cui è stato vittima il loro bambino Daniel, quando aveva appena quattro anni  e che lo ha  reso cieco. Un dolore, questo che ha segnato entrambi i genitori che si sentono in qualche modo  responsabili dell’accaduto  ed esso ha scavato a sua volta, una crepa insanabile nel loro rapporto. E certo non aiuta la solitudine dei boschi innevati, il paesaggio sia pure affascinante delle Alpi francesi, dove si sono trasferiti da Londra in cerca di silenzio e serenità. Sarà un’illusione, proprio da quel bianco immacolato scaturirà il giallo  e da esso tutte le ambiguità e le doppie verità  che esso richiede. La natura che avrebbe dovuto essere  rifugio e balsamo per la loro angoscia, non renderà quel che aveva promesso: il bianco immacolato delle cime innevate è solo immagine e simbolo di  una perfezione inarrivabile, una bellezza che non consola! L’essere umano ha bisogno di relazioni e isolarsi non è una soluzione alla tempesta che sconquassa la vita di questa  coppia all’interno della quale anche i rapporti di potere si sono capovolti,  infatti qui non è la donna a subire le scelte del compagno e fare di tutto per adeguarsi ad esse anche a costo di immensi sacrifici; qui è lui che vive in maniera più dolorosa il complesso di colpa per il trauma  causato dall’incidente del loro bambino; lei, la madre, riesce a superarlo con maggiore equilibrio e lucidità; è lui che soffre inoltre per una sorta di complesso di inferiorità  nei confronti della creatività di lei che il successo gratifica abbondantemente. Di solito,  in casi simili, per secoli è stata la donna a farsi da parte, mortificare ogni suo anelito di affermazione sociale per dare spazio e tempo al talento del suo uomo,  soffocando il suo  tra pannolini e fornelli! E’ questo il dato più interessante di questo legal thriller che rimanda esplicitamente ai tanti altri a firma maschile, l’invito a stravolgere l’ottica millenaria che vuole  la donna un passo indietro rispetto al suo uomo, per consentirgli di realizzare al meglio le sue potenzialità, le sue ambizioni, i suoi sogni. Tutto il film  va letto dunque ricorrendo, più che alla metafora,  alla litote, quella figura retorica che esalta i contenuti invitando a leggerli seguendo il senso del contrario. Solo così i conti tornano, se si sta al gioco della Triet,  perché di gioco si tratta  e, accenttandone le regole, giungeremo come premio ad un finale che se anche non è adrenalinico  è certamente  originale: la protagonista, Sandra, ne esce vincente anche perché a darle volto e carattere è una superba attrice, Sandra Huller. Essa appare  infatti perfetta come il ruolo richiede, ambigua, algida, scostante, “tedesca” come la vuole il luogo comune, incapace di comunicare sentimenti,  ma non certo di viverli intensamente, e di scriverne, dato che i suoi libri vanno a ruba, destando la gelosia del marito, invidioso dei traguardi da lei raggiunti e della sua fama. Probabilmente a causa di questo squilibrio della coppia scoppierà tra i due coniugi, proprio la sera prima della tragedia, una furiosa lite che  nascostamente Samuel registrerà. Il nastro sarà requisito dalla polizia, acquisito agli atti e  poi ascoltato in tribunale. Quel che è triste, alla presenza del bambino, che la legge non tutela affatto anzi che traumatizza, “a fin di bene”(?!), facendogli conoscere particolari anche della vita sessuale, non certo serena dei genitori, mettendolo a parte di avventure extraconiugali della madre, aggiungendo stupore al dolore di un adolescente già tanto provato dalla vita.  Anche  la cecità del piccolo Daniel è un espediente, un anello del meccanismo che Justine Triet mette in atto   per  intessere un thriller, sui generis,  dalla parte delle donne: donne che non incantano, che non seducono lo spettatore ma gli impongono un cambio di prospettiva che non regala  certezze ma che anzi, alimenta il dubbio e lo sprona  ad abbandonare posizioni stantie e comode che danno per sconfitta in partenza la donna, in quanto tale. In questo caso anche perché  Sandra è l’unica sospettata di  un omicidio,  per altro annunciato dalla crisi che emerge da tutti gli elementi che l’accusa in tribunale evidenzia e che non lasciano che un minimo margine al ragionevole dubbio invocato dalla difesa. Le udienze sono una tortura per l’imputata, il P.M. (il bravissimo Antoine Reinartz , sempre all’altezza di se stesso) sembra godere nel rigirare il dito nella piaga e   con sadico compiacimento insistere su dettagli piccanti per dimostrare la colpevolezza dell’imputata. L’aula del tribunale inquadrata dall’alto appare  come un labirinto; una  luce fredda  rende ancora più grigio quell’ambiente dove regna sovrana la giustizia ma latita l’umanità; tra i meandri a serpentina dei sedili, delle panche e delle spalliere le parole rimbalzano, come proiettili, tutti contro di lei, la donna, l’assassina, la scrittrice, l’artista che stanca, esasperata  da un uomo depresso, infelice, geloso e invidioso che le rinfacciava pure di averle rubato parte del romanzo che non riusciva  più a scrivere, lo avrebbe spinto e fatto precipitare dal terzo piano della baita.                      

  Anche il plastico, orribile strumento immancabile nei processi ormai così come nei murder-talk show dove, da un decennio a questa parte,  esperti criminologi  alimentano il voyerismo degli spettatori, conferma la dinamica dell’accaduto e pare escludere ogni equivoco. Anche per lo spettatore più sprovveduto e distratto, quella baita isolata, immersa nel bianco accecante della neve, desta non pochi sospetti. Sin dalle prime immagini, si nota come lo chalet incomba sulla neve e  ne comprometta la purezza; all’interno lo attraversa  una ripida scala in legno che,  più che legare i piani, ne frantuma l’armonia, ammesso che ci sia mai stata in quella casa. La music, un rap ossessivo che Samuel fa sentire a tutto volume, mette poi ulteriormente  in guardia da ogni possibile romantico fraintendimento. Ne fa le  spese anche la letteratura; la studentessa universitaria infatti, che era andata a trovare la scrittrice, felice di poter intervistare il suo mito per la tesi di laurea, quasi fugge da quel “buen retiro”,   dove pure stava rischiando di essere  sedotta! Cosa si aspettava, una lezione di arte, di vita,  un’iniziazione ai misteri e ai piaceri della scrittura creativa?  Niente di tutto questo: si ritrova nel bel mezzo di un Inferno da cui fugge qualche attimo prima che la tragedia si consumi e che possa coinvolgerla come possibile indiziata. Il cerchio delle indagini si stringerà  dunque solo intorno a Sandra, l’unica presente in casa; incriminarla o scagionarla sono eventuali esiti della vicenda    che presentano pari probabilità.  Nessun elemento il montaggio  offre allo spettatore  a favore o contro la tesi  dell’omicidio quasi subito sposata dalla polizia e dalla magistratura;  non c’è empatia, non ci sarà una catarsi; alla sbarra è un matrimonio finito! La soluzione del caso, ecco la novità che cercavamo,   è infine affidata al minore, Daniel, all’innocenza violata che a sua volta si avvale della collaborazione di Snoop, l’amico a quattro zampe che, da quando il padroncino è rimasto cieco, lo accompagna e lo guida nei sentieri impervi della vita, indicandogli la giusta strada; in questo doloroso frangente, lo aiuta a convincere il giudice a capovolgere il verdetto. Giustizia è fatta ma i dubbi rimangono tutti come è nello stile e nelle intenzioni della Triet: stimolare domande , non  offrire soluzioni a problemi enormi che la società è lontana ancora, anni luce, dal prendere in seria considerazione! Qualche lume al riguardo ce lo fornisce il cinema stesso e una delle sue firme più autorevoli e rappresentative, Federico Fellini : “Noi esseri umani siamo inconoscibili, immersi nell’inconoscibile”! Alludeva alla trama di un film che non realizzò mai. Il mistero è la stessa condizione umana; stando all’etimologia del termine rivelare significa “velare di nuovo”, non scoprire!

                                                                                                       Jolanda Elettra Di Stefano

Regia : Justine Triet - 

Attori Protagonisti  : Sandra Huller - Swann Arlaud - Samuel Theis - Jenny Beth - Milo Machado                                               Graner

 

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