Gli spiriti dell’isola - regia di Martin Mc Donagh         

   Come nel precedente film qui proposto: “Il prodigio” del cileno Sebastian Lèlio, ancora l’Irlanda fa da sfondo a: “Gli spiriti dell’isola” dell’inglese Martin Mc Donagh. Anche qui una vicenda esistenziale assume, man mano che si dipana, valenze sempre più corali in funzione di un messaggio universale, doloroso, ma inequivocabile. Mai il tema del “doppio” è stato raccontato con tanta lucidità e senza ricorrere a facili sentimentalismi, tanto da far tornare in mente una storia realmente accaduta che ci viene tramandata dalla storia dell’arte  e che, a mio avviso, non è del tutto estranea all'ispirazione del regista, autore anche della sceneggiatura. Vincent Van Gogh si tagliò un orecchio per far capire all’amico amatissimo Paul Gauguin, che non voleva più ascoltarlo perché non  condivideva più con lui la stessa concezione dell’arte, così pure gli rimproverava il tipo di vita disinvolta e libertina che egli  conduceva. Tali premesse segnarono la fine della loro amicizia, ma erano entrambi geniali e ognuno prese poi la sua strada, l’uno quella del lento, ma inesorabile annullamento, l’altro, estroso e ubriaco di vita, il viaggio senza ritorno verso paesi esotici e terre vergini da cui trarre ispirazione e linfa vitale. Ne: “Gli spiriti dell’isola” invece, si racconta dell’amicizia tra due comuni mortali diametralmente opposti: un anziano e un giovane, legati da un affetto e da una stima apparentemente granitica e di vecchia data, ma che si sbriciolerà ”all’apparir del vero” e cioè, in questo caso, al subentrare di una sorta di apatia, di un’incomprensione senza appello che a un tratto li rende distanti e inconciliabili. Anche un minuto di più perso come tutti i giorni, davanti a una pinta di birra, sarebbe stato deleterio per chi come Colm, l’anziano, era ormai stufo di chiacchiere inconcludenti e che inoltre, sentendosi  vicino alla fine,  aveva ferma intenzione di dedicarsi interamente alla musica, al suo violino e non rubare altro tempo a quella ballata, a quel possibile capolavoro, per il quale, fosse stato anche uno solo, sarebbe valsa  la pena vivere e riuscire a procurarsi quell’unica forma di immortalità che solo l’arte può garantire agli esseri umani! La decisione dell’anziano musicista è però drastica e raccapricciante, solo il rimando a quanto accennato prima, la nobilita. Per il resto, tutto il film è una provocazione.  Mc Donagh (che ancora una  volta si avvale di un’accoppiata di attori già collaudata e anche qui vincente, Colin Farrell e Brendan Gleeson) costruisce infatti un noir con tinte di comedy e non viceversa, come viene convenzionalmente etichettata quest’opera, al fine di provocare lo spettatore, scuoterne l’indolenza, e fargli subire uno shock  pari a quello di Padraic (Farrell), il protagonista, al momento in cui  si sente improvvisamente e brutalmente estromesso dalla vita dell’ amico, per certi versi anche padre, fratello, perfetto alter-ego comunque. Colm (Gleeson) infatti minaccia di tagliarsi un dito e, a seguire, tutti gli altri di una mano, la destra per altro, se Padraic oserà importunarlo e chiedergli spiegazioni del subentrare di quella nausea, del tipo di quella che solo Jean Paul Sartre seppe stigmatizzare, ma che è lontana anni luce dalla psicologia del suo “doppio”, un ragazzo semplice, privo di malizia, appagato da una vita priva di ambizioni, di desideri di fuga da quel microcosmo bucolico che trova nella magnificenza della natura e nella dolcezza degli animali, compagni di lavoro e sostentamento, il fulcro della sua esistenza.   Jenny, l’asinella viene addirittura  accolta in casa quasi fosse un cane o un gatto. La casa in cui  Padraic vive è del resto poco più di una stalla; il paesaggio intorno è  affascinante e malinconico e la fotografia che asseconda gli umori dei protagonisti, lo rende ancora più struggente e poetico. Tutto appare come fuori dal tempo e dallo spazio (l’isola di Inisherin è un luogo inventato, ma il film è stato interamente girato a Inishmore, una piccola isola dell’arcipelago di Aran al largo della costa occidentale dell’Irlanda); il regista  pare  inviti  lo spettatore a guardare con il dovuto distacco, come lui stesso fa, una realtà stratificata nel suo inconscio; di essa vuole rendere, nella forma più autentica, verità anche scomode, ma non per questo da rimuovere. Vuole parlarci di quell'Irlanda, sua terra d’origine  della quale intende svelare le contraddizioni, ma anche  esaltare l’ orgoglio, la cultura, il fascino di quelle  radici, alle quali  rende omaggio a partire dal titolo.                                                Succede a tutti di porre fine a un’amicizia; fa parte della crescita, ma certo non ci si mutila, anzi si prosegue il cammino abbandonando al loro destino coloro che costituivano un inciampo, un ostacolo alla nostra voglia di futuro, al nostro “vedere orizzonti dove l’altro vedeva confini”  (F. Kahlo), oppure ancora perché  ci accorgiamo che i nostri sodali  non aderiscono più  ai nostri contorni e che anzi  tentano di lacerarli  con cinica crudeltà!  Quello che più inquieta in questo racconto è però che ci si ritrova a parteggiare per l’allontanato, non per l’allontanante, quale siamo stati anche noi nel corso della vita, perché il primo risulta, in questo caso, irritante e perfido malgrado le sue intenzioni siano teoricamente condivisibili e non certo prive di quella ragion d’essere che induce a cancellare in un attimo un passato, un vissuto fatto di quel niente che una volta rendeva felici: godere insieme di panorami stupendi, fare quattro chiacchiere al pub, condividere insomma momenti di gioia, lontani dal mondo in un’ isola semideserta dove le ore sono scandite dalle voci degli animali, dalle sfumature del cielo al tramonto, dal suono delle campane e vivere lontani anni luce  dal sinistro bagliore delle armi che intanto incendiava la terra ferma a pochi nodi di barca da Inisherin.  Inisherin, luogo dell’anima per il regista che ancora vede quegli spiriti che hanno popolato la sua fantasia di bambino e che ci fa conoscere, facendoli librare non visti nell’aria o materializzandoli nella vecchia strega che predice solo disgrazie o nel tenero Dominic, ragazzo “ritardato” ma buono come un angelo che, vittima della violenza del padre-poliziotto e affranto da un’ insostenibile pena d’amore, lascerà la vita facendosi travolgere dalle onde del mare.  Ce n’è uno fra tutti che però vola alto, insalutato ospite, ed è lo spirito di Samuel Beckett, di quel Beckett che col suo teatro aveva fatto a pezzi il dialogo e nell’azzeramento della più naturale forma di comunicazione, simboleggiato il disintegrarsi dell’esistenza umana all’indomani dello scoppio della bomba atomica. E’ questo il senso della violenza che il regista non ci risparmia. Che altro può significare quella mano monca di Colm, il violinista che certo non potrà più suonare, se non quel senso di ’incompiutezza dell’essere umano che nega a se stesso e “distrugge ciò che più ama” come scrisse Oscar Wilde sull’epitaffio della moglie, perché si sente inadeguato di fronte alla bellezza, non sa più crearla né trasmetterla.  La solitudine scelta come riparo all'idiozia altrui,  è solo un atto di presunzione e di sterile  orgoglio che  rende isterici e crudeli. Non si vive ingannando se stessi in attesa che la creatività, se pur la possediamo, possa esplodere necessariamente nel capolavoro; la vita stessa è forse quel capolavoro che trascuriamo, che sottovalutiamo; se recuperassimo la parola, ascoltando le ragioni degli altri, come fossero le nostre, se ci lasciassimo coinvolgere dalla  tenerezza del loro candore che ci pare noia quando invece ne abbiamo bisogno perché  ci pone dinanzi alle nostre fragilità  e può  renderci forti al contempo se insieme ci sforziamo di superarle!                                       Colm e Padraic  sono dunque le due metà in cui uno stesso individuo può sdoppiarsi, così pure le due fazioni belligeranti che hanno insanguinato l’isola che ha dato i natali a J. Joice, Bernard Shaw, Oscar Wilde,  W. B. Yeats ,  S. Beckett,  K. Branagh, per citare quelli più famosi, quel lembo di terra che è un crogiuolo di cultura, arte, poesia, musica e per finire quell'Irlanda  dove non sembra ancora chiaro chi ha ucciso chi e perché nel corso delle varie fasi di quella guerra che ci ostiniamo a chiamare  civile e che l’ha insanguinata  a partire dagli anni venti del secolo scorso, epoca in cui si inquadrano i fatti narrati.                                                                                                                                                     Emblematico dunque il  finale di questo film come, del resto,  quello delle precedenti opere di Mc Donagh. In “In Bruges”, e più ancora in “Tre manifesti a Ebbing Missouri”, sembra la violenza l’unica risposta all’orrore del mondo,  allo strazio di una madre che chiede giustizia  per la figlia violentata ed uccisa, e, non ottenendola, sembra determinata a farsela da sé. Eppure non vediamo scorrere il sangue e qui manca il cadavere, per quanto annunciato.  Colm alla fine appare vivo sulla spiaggia e ringrazia Padraic per avergli risparmiato il cane, incendiandogli la casa, nonostante lui gli avesse invece ucciso l’asinella soffocandola col dito mozzo. L’immagine è raccapricciante, ma assai significativa per decifrare l’essenza del messaggio di Mc Donagh: Caino uccide Abele, Abele diventa a sua volta Caino, ma non tanto da non sentire il bisogno insopprimibile di avvertire la vittima del suo intento. Un incendio catartico risolleva l’animo dello spettatore che non accetta di veder il suo alter-ego dello schermo, per giunta col volto di Colin Farrell, diventare assassino. Tale non sarà infatti: la lettera che Padraic spedirà alla sorella, spirito libero che, ben consapevole del fatto che nessun Godot arriverà mai ad Inshirin, intanto è fuggita, non fa nessun accenno a questa catastrofe che è forse solo frutto di un incubo, un’allucinazione!?  Anche Banshee, lo spirito maligno dell’isola, la strega del malaugurio, l’orribile vicina di casa dei protagonisti, ha lasciato aperta l’interpretazione del suo, benché pessimo, presagio!     A noi rimane dunque un brandello di speranza che anche la musica, presenza discreta e indispensabile nel film, dolcemente impone!

                                                                                           Jolanda Elettra Di Stefano    

 Awards: Colin Farrell ha vinto la coppa Volpi al festival del cinema di Venezia- 2022

                   Il film ha già vinto ai "Bafta" come "miglior film britannico"

                   E' attualmente candidato agli Oscar 2023

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Regia e sceneggiatura : Martin Mc Donagh

Attori protagonisti: Colin Farrell - Brendan Gleeson - Kerry Condon

Musica: Carter Burwell- J.Brahms 

                                          

 

 

 

 

 

 

 


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