“Bardo, la cronaca falsa di alcune verità”,
regia di Alejandro Gonzales Iñárritu
“Bardo” ci cattura sin da subito, facendoci seguire un’ombra
che avanza tra nodi di sterpi lungo una landa sterminata e desertica; a un
tratto, all'orizzonte, una striscia azzurra, luminosa interrompe l’inquietante
monotonia dell’immagine e l’ombra si materializza in un uomo che, in tutt'altro
contesto, un lungo corridoio d’ospedale, attende, ansioso e paziente, la nascita
del suo primogenito. Iñárritu non si smentisce. Anche qui, come nelle altre sue
precedenti opere, tutto è reale, tutto è metafora! Il bimbo nasce in buona
salute e, già miracolosamente in grado di parlare, esprime senza mezzi termini
il suo disgusto per il mondo; medici e infermieri non trovano altro di meglio da
fare che reintrodurlo tempestivamente nell'utero della madre e dimetterli
entrambi. Tutto il film va letto dunque nell'ottica del rigetto del presente,
sia pur con tutti i suoi “doni”, del ritorno al passato, alle origini, quindi al Messico per il protagonista:
Silverio Gama (Gabriel Gimenéz Cacho), a quella terra intrisa di spiritualità e
di magia che lo ha nutrito con amore, favole e poesia, religione e
superstizione, in una parola a quell’”Itaca che gli ha regalato il bel viaggio”! E Il viaggio è stato bello per Silverio, più
bello di quanto non avesse osato sperare. Era fuggito infatti, vent'anni prima,
dalla censura, dalla dittatura; dal Messico si era trasferito negli Stati
Uniti, lasciandosi alle spalle i tramonti infuocati, l’oceano immenso, il
calore dell’infanzia, la sfolgorante solarità dei luoghi dove l’aveva vissuta,
e che ora gli tornano in mente, più vivi che mai, più desiderabili che mai! Era
partito con la ferma intenzione di realizzare un progetto di vita, rischioso,
ma per lui imprescindibile: fare il cronista, indipendente, scovare la verità esplorando
ogni suo più buio anfratto e farla venire a galla assumendosene, con coraggio,
tutte le conseguenze. Realizzerà a pieno questa caparbia volontà di conoscere per informare,
sarà apprezzato ed amato da quel mix variegato di popoli in cui consiste l’America
alla quale, suo malgrado, dovrà l’opportunità
di vivere più che agiatamente e garantire alla famiglia, ai figli,
trascurati ma amatissimi, tutte quelle chance che altrimenti sarebbero
state loro negate. Farà un’arte della
sua professione: il suo linguaggio è poesia e va ben oltre i limiti della
fredda narrazione documentaristica. I suoi reportage affascinano gli spettatori e
convincono la critica a tal punto da assegnargli l”Aletheia, il premio
statunitense più prestigioso nel campo del giornalismo, premio mai stato assegnato prima a uno “straniero”.
Appresa
la notizia, anche in Messico i suoi fan
esultano e organizzano una festa megagalattica in suo onore. Silverio ritorna
dunque, ma non è la festa che lo attrae, si negherà anche all'intervista in TV dove certamente lo avrebbero costretto a rispondere a domande idiote e
nauseanti su ovvietà d’ogni ordine e tipo.
Il premio stesso è, per Silverio, solo un pretesto per tornare a quella
terra che lo attrae come una calamita, come un cordone ombelicale mai spezzato
e tuttora sanguinante. E’ con questa predisposizione d’animo che preparerà il documentario
da proiettare nel corso della cerimonia della premiazione. Avvolta in
un’atmosfera di fiaba mostrerà la sua ultima “cronaca falsa di alcune verità” :
intere famiglie di emigranti, donne, donne incinte, bambini camminano verso il
confine che divide il Messico dagli Stati Uniti; sporchi, stanchi affamati,
sorretti dalia speranza e dalla preghiera che non mancano di innalzare al cielo
in quelle piccole ecclesie improvvisate, fermandosi lungo il cammino. Silverio
è lì, in mezzo a loro, con loro, vive per filmarla la loro stessa avventura, si
immerge nel fango e respira la stessa polvere, ascolta e registra, documenta la
pena, l’entusiasmo e la disperazione, la
vita in tutto il suo doloroso divenire.
Silverio vive con disagio tutto il successo che gli è piombato addosso; lascerà
infatti alla figlia il compito di leggere il discorso di ringraziamento,
addirittura considera la sua fama il suo peggior fallimento, come confesserà al
padre, immaginando di rivederlo e abbracciarlo come fosse ancora vivo. Lucia,
la moglie (Griselda Siciliani), eccellente suo alter ego, non gli risparmierà però
il rimprovero per quella falsa
modestia che ha rivelato nel suo schernirsi e fingere di non gradire i sia
pur meritatissimi complimenti, gli
applausi, gli onori a lui tributati per una carriera senza ombre,
innegabilmente invidiabile. Lorenzo, il figlio adolescente (Iker Sànchez
Solano), perfetto interprete del ruolo in cui riesce a imporsi, anche come
immagine-simbolo della sua generazione, fa notare al padre, e sarà peggio di uno schiaffo per quest’ultimo, come quel paese, proprio quel paese tanto da
lui contestato e spesso anche disprezzato, gli ha infine conferito il premio più ambito della categoria e
coglierà così anche l’occasione di
indurlo a considerare come, dal tempo dedicato al lavoro, non sia
riuscito mai a ritagliare una congrua fetta da dedicare ai suoi figli! Una
semplice battuta per inchiodarlo alle sue responsabilità e spingerlo a
riflettere sulle sue defaillance di padre, di marito e di figlio, a sua volta,
come avremo modo di constatare anche nel colloquio con la madre. E’ questa una
delle scene più commoventi e al contempo
più divertenti di tutto il film. Il
“figliol prodigo” diventato giornalista di chiara fama, torna alla casa natia
dove si lascia cullare dalla ninna nanna e incantare dalla dolce ironia di
colei che lo ha messo al mondo!
Sarebbe un errore liquidare un’opera di quasi tre ore, riducendola a uno sberleffo al giornalismo e al narcisismo delle sue star. Al mondo dello spettacolo e alla sua vacuità Iñárritu aveva dedicato “Birdman”, film grazie al quale vinse il suo primo Oscar e, per quanto il giornalismo oggi brilli più per fake news che non per rigore e trasparenza, tale lettura non darebbe contezza della complessa personalità di Silverio Gama, il protagonista che, in realtà, è soprattutto stanco di inseguire la verità, suo obiettivo principe all'inizio della carriera, e oggi altrettanto stanco anche di dire quello che pensa, piuttosto, vorrebbe finalmente dire ciò che sente! Infine, da tutte queste premesse potrebbe scaturire la facile tentazione di rinchiudere questo film nella categoria “amarcord nostalgico”, trend attualissimo, per altro, oggi. Ancora più fuorviante sarebbe vedere solo in Silverio il perfetto “doppio” del regista poiché sono tante le sfumature delle scene, la valenza simbolica di esse, la profondità dei dialoghi, lo spessore dei personaggi, tutti supportati dalla bravura degli interpreti, perché tutto invece possa indurre ad ammettere che l’autore si nasconde e si rivela in tanti elementi che compongono l’opera: un puzzle immenso, dove l’occhio spazia e la mente si arrende, lasciandosi ammaliare dalle immagini e dal mistero che da esse si sprigiona. La fotografia, questa volta affidata all'iraniano Darius Khondji, non è un mezzo, ma un fine; fa parte dell’enigma di questo interrogarsi sulla morte, sul valore dell’arte, sulla sua sacralità così pure sul suo potere dissacrante, sul suo voler e potere essere l’anello mancante di una catena che può far crollare montagne di ipocrisia, di falsità e di orrende mistificazioni, oggi funzionali alla politica che ha smarrito la bussola ed è solo preoccupata di sopravvivere piuttosto che d’ imporsi come valido riferimento per tutte le società civili. Il rutto sovranista, diffuso in tutto il mondo, in mancanza di idee, prospettive a servizio dell’uomo e non viceversa, mostra come la geografia possa cambiare con la sola forza di un clic o di un like. Le macroscopiche aziende a cui i social fanno capo si stanno impadronendo del mondo, “Amazon vuole comprare la Bassa California” (e non è solo una battuta!) “Perché non venderle pure il Messico”?! Non rimane che urlare alla maniera antica: “Cave canem” e il cane non è il povero, il senza tetto, il senza niente; il pericolo, l’aggressione che l’occidente opulento, debole e impaurito paventa verrà dalla post- miseria”, da quel vuoto, da quell'assenza di umanità, da quella crudeltà di chi non ha nulla da perdere, men che mai quel barlume di coscienza di cui non sa che farsene. Droga, armi, tecnologia sofisticatissima sono cartelli trasversali a tutto il pianeta e possono tenere in ostaggio il mondo, così come un tempo le “spezie” hanno contribuito a fondare gli Imperi sui quali non tramontava mai il sole. Le architetture barocche magniloquenti e massicce ne sono un retaggio. Intenzionalmente inquadrate sì da assumere un aspetto sinistro, incombono sulla scena, anatemi di pietra, per scoraggiare chiunque osi sfidare la prepotenza e l’arroganza del potere. Impagabile la lezione di storia ammannitaci da Hernan Cortés, comodamente assiso su una montagna di cadaveri; ben poca cosa tale orrore, quasi romantica l’immagine che lo documenta, se messo a confronto con i delitti del primo mondo nei confronti del terzo. Sono riflessioni apocalittiche e appesantirebbero il film che è magnifico, se non ci fosse sotteso al dialogo, al dipanarsi della vicenda anche un grande amore per la natura osservata e ripresa con lo sguardo innamorato di chi dalla sua incantevole bellezza, intende trarre e trasmettere una lezione di vita e un non troppo celato anelito di spiritualità!
Jolanda Elettra Di Stefano
Attori protagonisti:
Danièl Giménez Cacho (Silverio Gama)
Griselda Siciliani (Lucia)
Iker Sanchez Solano (Lorenzo)
Ximena Lamadrid ( Camila)
Andrès Almeida (Martin)
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Sceneggiatura. A.G. Inarritu - Nicolas Giacobona
Fotografia: Darius Khondij
Scenografia. Eugenio Caballero
Colonna sonora: Bryce Dessner- A. G. Inarritu
Costumi: Anna Terrazas
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"Bardo", presentato in concorso alla settantanovesima Mostra del cinema di Venezia (settembre 2022) ha vinto il Premio : "UNIMED" -
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