The triangle of sadness Regia di Ruben “stlund (2022)

Conoscevamo il mondo della moda attraverso il cinema, dello sport, della danza, dell’arte; la cronaca giornaliera non ci risparmia tristi risvolti dell’educazione al successo per “farfalle” dedite alla ginnastica artistica;  mancava a noi solo la “corte” degli influencer, ultima trovata, almeno sino ad oggi, con cui appagare il narcisismo e l’opportunità che esso offre di guadagnare cifre stratosferiche, semplicemente con l’esibizione ossessiva della propria immagine a supporto delle offerte di mercato. Esse penetrano così direttamente, nella corteccia cerebrale di adolescenti e non, che pur di non pensare, delegano all’influencer di turno, anche la scelta della carta igienica! A quest’ultima forma di alienazione dell’umanità, è dedicata quest’opera di Ruben Ṏstlund, premiata con la “Palma d’oro”, la seconda per lui nell’arco di soli cinque anni, al festival di Cannes, lo scorso maggio.

La ricetta è la stessa di “The square”, film dedicato al retrobottega dell’arte:  zummare  su di un mondo dorato e rivelarne tutto il marcio, il cinismo di chi lo gestisce, l’assenza di cultura e di interesse autentico per la materia trattata di coloro che a vario titolo si danno da fare in questo ambito. Là dove ci aspetteremmo passione e professionalità al servizio di essa, troviamo solo mondanità, opportunistiche relazioni umane, prevaricazioni, ipocrisie, perfidia! Uno scavalcarsi animalesco  a caccia di una sempre più consistente fetta di potere; donne o uomini non fa differenza, il fine giustifica il mezzo, qualunque mezzo!

A differenza del precedente, però, in questo film, manca la sorpresa, tutto appare scontato  e la novità consiste solo nella scelta della categoria presa di mira  e che però attrae non poco i fans di “Ṏstlund, a partire dal titolo originale e bizzarro. Avete mai fatto caso, “voi anime piene di aspirazioni” e certamente di numerosi quotidiani impegni, al vostro “Triangle of sadness”? Vi siete mai posti il problema di ricorrere al bisturi per contrastarne la rilassatezza e non darla vinta ai segni del tempo che compromettono a poco a poco, irrimediabilmente, la levigatezza del vostro volto? Probabilmente non sapete neanche che cos’è, come me del resto, ma, grazie a “Ṏstlund, d’ora in poi, saremo maestri al riguardo! “The triangle of sadness” è quel piccolo spazio che separa le sopracciglia sul viso di ognuno di noi e sono in tanti a farselo chirurgicamente spianare, perché trascurarlo, pare porti sfortuna!   Incuriositi da questa premessa, osserviamo con attenzione l’incipit del film, anche se nulla  ci attrae particolarmente.  La prima scena inquadra un contesto da cui si vorrebbe solo fuggire,  ma  sappiamo bene che  l’intento del regista è proprio questo: costringere lo spettatore a osservare come va il mondo,  prendere in seria considerazione una realtà  che se anche non ci appartiene, non possiamo né dobbiamo misconoscerla; se la rifiutassimo a priori, vanificheremmo lo sforzo sincero dell’autore di condannarla rappresentandola senza compiacimento né ipocrisia.  Se ci limitassimo a giudicare saremmo complici, parassiti  di una vita che ha rinunciato da tempo a essere vita!    

L’immagine è sbiadita, i colori spenti; sembra una pellicola vecchia e consumata. Gli sfondi, siano essi spazi angusti ma raffinatissimi di hotel di lusso, o esterni vacanzieri; entrambi sono intenzionalmente privi di una benché minima attrattiva. Decisamente  squallide quelle salette d’attesa in cui tanti ragazzi,  a caccia di soldi facili, si offrono in mutande  al provino, per essere scelti come modelli, attori e futuri possibili influencer.  Lo spazio in cui sfilano fa pensare piuttosto a una macelleria e i volti degli esaminatori sembrano stanchi commensali che prendono o lasciano la “carne” con la stessa facilità con cui  girerebbero e rigirerebbero, per meglio addentarle, cosce di pollo! La scelta del regista di mettere il dito sulla piaga, esponendo al pubblico ludibrio modelli anziché modelle, è però interessante e funzionale all’ottica da cui il racconto va osservato. Dall’inizio alla fine sono infatti  le donne le protagoniste della scena, ma non è una bella notizia perché “Ṏstlund ha superato da tempo, il politicamente corretto del credo   femminista e  gli uomini qui appaiono solo vigliaccamente rassegnati al matriarcato di ritorno. Quella dei maschi è solo una temporanea assenza, in attesa che un rappresentante della categoria li vendichi e restauri una volta e per tutte l’atavica supremazia. Utopie!? Forse, distopie più verosimilmente, ma da non escludere in un mondo in cui le donne continuano a morire per un velo male indossato! Utopia del resto era anche quella di Marx, poi stravolta dai leader della rivoluzione russa,  sopraffatta da quella prassi che fece a pugni con la teoria. E’ questo il nocciolo della questione: conciliare l’inconciliabile, marxismo e capitalismo, almeno provarci. Con questo intento, autoironizzando sulle sue stesse posizioni politiche, in questo film, più grottesco che corrosivo rispetto al precedente “The square”,  “Ṏstlund fa giocare insieme sullo stesso tavolo, un plurimiliardario venditore di merda -Pardon!- concime chimico, e il capitano (Woody Harrelson) di uno yacht per nababbi, marxista sì, ma dedito all’alcool e alla sistematica distruzione di se stesso. Non lo vedremo mai, infatti, uscire fuori dalla sua cabina-suite, se non in una sera di annunciata tempesta che egli stesso sceglie appositamente, ad onta delle previsioni metereologiche, e che porterà alla deriva ricchi e poveri, servi e padroni, comandanti e comandati, condannandoli a sicuro, inevitabile  naufragio.

Salvi, approdano in pochi, in una non  bene identificata isola; tra questi, i due giovani protagonisti: Yaya e Carl (Charibi Dean e Harris Dickinson) modelli e influencer entrambi ai quali la crociera di lusso era stata regalata come premio per la loro assidua, efficace attività sui social; salva Paula (Wicki Berlin) il braccio destro del capitano che a lei, donna energica e ambiziosa, aveva finito per delegare tutto, avendo rinunciato da tempo, non solo a comandare, ma per certi versi anche a vivere. Da tempo infatti ella regnava sovrana su tutto e su tutti, autoritaria, efficiente e perfida tanto quanto basta per tenere a bada non solo il personale cui non perdonava defaillance alcuna, ma tutto quel caravan-serraglio di bestie che vedremo annegare nel loro stesso vomito e sguazzare nei loro stessi escrementi prima di sparire per sempre sommerse dalle  acque dell’oceano.

Salva, perché furbescamente rifugiatasi, da sola, nella scialuppa di salvataggio, Abigail, la cuoca, una filippina con tanto di polso che chiarirà sin da subito come non può che spettare a lei il ruolo di capitano, in quelle circostanze, dal momento che nessuno dei naufraghi è capace nemmeno di accendere un fuoco! A lei dunque il potere, di vita o di morte, sui suoi subalterni i quali non possono che assoggettarsi a chi è in grado di garantire la sopravvivenza in quell’isola deserta che tanto somiglia a quelle dei “reality” che le televisioni di tutto il mondo ammanniscono senza pietà per un pubblico assuefatto alla noia e non più capace di intendere e di volere, per quella massa di amebe che stravaccate sui divani h24, non si accorgono neanche che, mentre loro stanno a guardare la fiera delle idiozie, scoppiano guerre, epidemie, disastri ambientali irreversibili; a loro interessa seguire le misere beghe dei vip di turno che si prestano al gioco perverso della lenta estinzione del pianeta.

Il finale è prevedibile e certo anche annunciato sin dalle prime scene che innescano, sin da subito, la catena dei rimandi cinematografici delle opere di quei maestri ai quali il film strizza l’occhio. Escludendo coloro ai quali lo stesso regista ammette di essersi ispirato, Louis Bunuel e l’italiana Wertmuller, tra i più grandi artisti tra quelli che hanno saputo, al meglio, “castigare ridendo mores”, affiorano alla nostra mente un ricordo antico e uno recentissimo. Il primo è la scena conclusiva di “2001 Odissea nello spazio”- che documenta la fine del mondo secondo  Kubrick,  l’altro è “Parasite” di Bong Joon-Ho; non a caso, il volto su cui si blocca l’ultimo fotogramma di questo “Triangle of sadness”,  è quello della “serva”che attua così la sua insperata, ma sempre  inconsciamente covata  vendetta.  Come nel noir di Bong Joon- Ho, anche qui la lotta di classe è servita! In mezzo a questi due esempi, tanto cinema cui si deve  sicuramente  l’aver convinto l’Ṏstlund ragazzino a decidere  cosa volesse fare da grande. Tra le citazioni dichiarate e non, merita  poi una menzione a parte “Film fallado” (2003) di Manoel De Oliveira; di esso, l’opera di “Ṏstlund  potrebbe essere una rivisitazione ironica supportata  dagli stessi intenti: la nave, che va toccando i porti simbolo della civiltà occidentale, nulla potrà contro la ferocia del terrorismo! L’accostamento sorge spontaneo, le analogie tante, compresa “l’ultima cena “ che i comandanti consumano con i passeggeri più illustri. A un tratto accade l’imprevisto ed entrambi i  lussuosi galleggianti faranno la stessa fine!

 Suona dunque come un apocalittico commiato, in questo “Triangolo della tristezza”, l’immagine di quel resort che Yaya scopre perlustrando l’isola in cerca di cibo; potrebbe essere  la salvezza o più verosimilmente quel “Paradiso” di cui si dice : "E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago,  piuttosto  che  un ricco entri nel regno dei Cieli"! .

                                                                               Jolanda Elettra Di Stefano

 

 

 

                 

 

 

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