"Belfast" - regia di Kenneth Branagh  (2021)

Belfast, ultima fatica di Kenneth Branagh, girato in pieno “Lockdown” da “Covid”, bloccato poi dalla conseguente chiusura delle sale, è finalmente fruibile e vederlo oggi ha un valore particolare. Come tutte le opere d’arte non ha un messaggio univoco; se ci si scosta infatti dal  dato meramente biografico diventa un monito per coloro che accendono e alimentano irresponsabilmente quei focolai di guerra da cui potrebbe scaturire quel  terzo conflitto mondiale che si paventa e che avrebbe conseguenze devastanti per tutto il pianeta. L’Ucraina, per esempio, dilaniata da lotte intestine già dal 2014 è oggi concretamente invasa dalla Russia che tende a riconquistarla in nome di un’eredità di sangue che la maggioranza del suo popolo non riconosce più. E se anche lo facesse,   non giustificherebbe questa “operazione speciale”, comunque la si chiami, che ha già procurato  quell’altissimo numero di vittime che tutti i media del mondo, quotidianamente, registrano e documentano.

Nell’Ulster (Irlanda del Nord) accadde qualcosa di simile sul finire degli anni ’60 del secolo scorso e a guidarci, nel ricostruire quella tragica stagione, è un bambino, il protagonista del film che Kenneth Branagh, regista e sceneggiatore, ha scelto come suo alter-ego per raccontare la sua infanzia a Belfast dove è nato e da dove dovette fuggire con la famiglia, all’età di nove anni. Tutto quello che registrano i suoi occhi, la sua fantasia, la sua curiosità, la voglia di crescere, anche seguendo gli “ordini “ del Lucignolo di turno, possono  far luce sull’intricata storia di quel lembo di terra insanguinata da lotte fratricide e, quel che più conta oggi, illuminare quel sentiero difficile, tortuoso e ingannevole che induce a pensare che esiste una violenza esecrabile e una “giusta” cui ricorrere per sanare ogni sorta di conflitto , anche condominiale!

Il “bianco e nero” è un espediente efficace per recuperare un passato che il regista vuole far rivivere in tutta la sua semplice verità e  rievocare con amore e nostalgica tenerezza. L’infanzia è per tutti quel paradiso perduto che nessun evento, per quanto traumatico può rubarci e deturpare a tal punto da non sentire mai il bisogno di farlo affiorare alla memoria  e goderne tutta l’incontaminata bellezza, come appunto fa l’autore qui, in questo “amarcord”,  commovente ma non troppo, anzi a tratti anche allegro e divertente.

Le prime immagini del film sono a colori: esse ci mostrano la Belfast di oggi: una città moderna e operosa che sembra avere sepolto quegli anni turbolenti che la insanguinarono e la svuotarono, giacché in tanti, fra i suoi cittadini, scelsero  di lasciarla e fuggire da quel teatro di distruzione e di morte che era diventata.

La Belfast a colori dell’inicipit appare come un risveglio dopo un buon sonno e ha più a che vedere con le immagini da fiaba che associamo più al celeberrimo “Trono di spade” che vi è stato ambientato, che non al triste spettacolo della guerriglia urbana  cui abbiamo accennato poc’anzi. A un tratto vediamo apparire un castello, infatti, il castello che domina la città con tutta la sua ieratica magnificenza, ma non facciamo a tempo a fissarlo nella mente che l’immagine viene capovolta: la fiaba è finita dunque, comincia la realtà, tutta da vivere per il piccolo Buddy, il protagonista, e ha inizio il suo “racconto di formazione”che Jude Hill, benché per la prima volta sullo schermo,  interpreta con  convinta partecipazione e sorprendente maturità.

Il 15 agosto 1969- poco più di un mese da quell’evento straordinario che permise all’uomo di passeggiare sulla luna, la capitale dell’Irlanda del nord, divenne teatro di un cruento conflitto che si protrarrà per lunghi anni e  avrà fine solo nel 1998. “Giochi interrotti” dunque per i bimbi; come a Berlino un tempo, anche qui, tramonta un mondo armonico e sereno: una piccola città, tranquilla e laboriosa dove tutti conoscono tutti e vivono in pace, quasi fossero un’unica famiglia, improvvisamente viene scossa dal veleno dell’intolleranza religiosa, innanzi tutto, ma più verosimilmente dalle disuguaglianze sociali, dalla mancanza di lavoro, e di concrete prospettive economiche, insomma da problemi atavici    che la violenza esacerbò ma non risolse, come speravano coloro che da essa si lasciarono affascinare!

La fotografia  eccellente, di Hars Zambarloukos ritaglia ed  evidenzia con un disegno preciso,  fatti e ricordi che si incideranno nella mente e nel cuore del protagonista, imponendogli di crescere più celermente del previsto e cominciare a  indagare la vita anche spiando i genitori che, preoccupati, cominciano a prendere in seria considerazione l’idea di trasferirsi all’estero, magari anche in Australia, paese lontanissimo ma che offriva  ottime  opportunità di lavoro!

Gli occhi del piccolo Buddy registrano l’orrore che sconvolge una routine che nulla, pensava, avrebbe mai potuto scalfire. I bimbi giocavano felici per strada sotto gli occhi degli anziani che, divertendosi a guardarli, dimenticavano gli acciacchi, la solitudine e le loro pene.  Anche quel terribile giorno in cui scoppiò la rivolta, i ragazzini giocavano alla guerra e per ironia della sorte, lo scudo-giocattolo con cui Buddy si divertiva a simulare uno scontro coi coetanei, gli servirà per proteggere lui e la mamma,  corsa subito in strada  a riprenderlo, allertata dagli spari e dalle grida improvvise che avevano bruscamente interrotto il dolce rumore della vita!

Torneranno a casa sani e slavi, ma nulla sarà più come prima e certo non rassereneranno il piccolo Buddy i sermoni del parroco, in chiesa, anzi da allora in poi, essi ingigantiranno quel senso di colpa che già pesava come un macigno sulla coscienza in fieri di questo bambino traumatizzato dalla violenza che imperversava per le strade  e della  quale non sa darsi  alcuna spiegazione;  Buddy non  capiva, e perché avrebbe dovuto? Perché mai i protestanti, come lui, avrebbero dovuto odiare i cattolici, i vicini di casa, la piccola, dolce Catherine, il suo primo amore! I suoi genitori, intanto sempre più spesso e convintamente discutevano di quella scelta dolorosa ma necessaria  di lasciare Belfast per garantire ai figli un futuro più certo e migliore, anche sacrificando quel senso di appartenenza che però si porteranno nel cuore e certo li aiuterà, come raccomanda la nonna nel finale, salutandoli, a non dimenticare mai se stessi!

 Tutto il film è infatti un omaggio alle radici, alla memoria, a tutto quello che  ci plasma e ci completa quando pensiamo che possa sopraffarci e invaderci l’indifferenza altrui e quel vuoto che inspiegabilmente ci hanno creato intorno per distruggere la nostra identità. Se poi si diventa artisti poliedrici e geniali come l’autore di tanta poesia, tutto dobbiamo allo scoglio che ci ”Ha regalato il bel viaggio”,  in questo caso un quartiere qualunque di Belfast,  Belfast,  non un luogo come un altro, ma “una condizione della mente”! E non è certo solo la tenerezza che il racconto suscita, a fare un gioiello di quest’opera perché la fotografia che tanto ricorda lo stile dei grandi maestri come Cartier Bresson e Robert Doisneau, e la musica contribuiscono non poco, alla riuscita di essa. La prima gioca con primi, secondi e terzi piani disposti come una matrioska, ognuno di essi rimanda a ciò che sta dietro, come le quinte di un teatro, tatticamente disposte per garantire profondità e senso della prospettiva, qui però da intendersi più nel senso  metaforico che banalmente oggettivo. La musica di Van Morrison, anch’egli irlandese, ritmata e,  a tratti, dolcemente malinconica, in linea con la grande tradizione musicale cui anche i Beatles attinsero a piene mani. Musica e fotografia, dunque entrambe complici di questo viaggio nella memoria del regista al quale restituiscono, con grazia e sincera adesione al reale, quel passato legato ai suoi affetti più profondi .

Gli attori recitano all’unisono. La madre Caitriona Balfe, dal cui dolcissimo volto  traspare tenerezza, intelligenza e un carattere talmente forte da costituire  per i suoi bimbi, per la famiglia e per tutto il quartiere, un punto di riferimento imprescindibile cui attingere per ritrovare il coraggio e la voglia di sperare. La nonna, la grande impareggiabile Judi Dench, una roccia da cui ricevere conferme e stimoli per guardare al domani con fiducia e  sereno distacco. Judi Dench, l’attrice più volte premio Oscar, che il regista che l’ ha avuta accanto  in tante pregevoli opere, qui tiene a precisare di averla scelta come emblema del DNA irlandese fatto di ironia, profondità di sentire e di un innato senso del bello  e della capacità  di esprimerlo nell’arte in maniera eccelsa.

Buddy assorbe tutto questo e presto si lascerà travolgere dal fascino che  il cinema, il teatro dove spesso trascorreva ore felici coi genitori,  esercitarono su di lui.  La nonna poi, non perdeva occasioni per inculcargli la passione per la scena e di essa, il piccolo Kenneth ( Buddy nel film) diventerà da grande padrone indiscusso. Accanto a lei vedrà chiara la strada da intraprendere senza indugio, quella strada  alla quale tutti noi dobbiamo la grande arte  che Branagh ci ha regalato e che apprezziamo  senza riserve! 

                                                                                          Jolanda Elettra Di Stefano                                     

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