Il Potere del cane- Regia di Jane Campion
Perfetta questa uscita,
in piena persistente angoscia pandemica, dell’ultima fatica della Campion, regista
che abbiamo amato e apprezzato sin dagli esordi perché ci ha regalato splendidi
ritratti di donne che hanno sfidato le epoche in cui sono vissute, sfoderando
intelligenza, coraggio, dignità, senza mai
rinunciare alla grazia, alla forza che danno i sentimenti, senza mai perdere il
fascino di quel mistero che si cela dietro l’”essere donna”, almeno nel senso
in cui lo intendono, convenzionalmente, gli uomini. Non stupisce che la regista
abbia scelto -ed è la prima volta che
accade nella storia del cinema- di cimentarsi in un genere esclusivo
appannaggio dei maschi, il western! Ha così regalato ad esso una seconda
giovinezza, più consapevole e matura che tanto può aiutarci a leggere questo
presente confuso e malato che viviamo. “Il potere del cane”, premiato a Venezia
con il “Leone d’argento, va letto in
chiave antropologica; esso non suggerisce soluzioni, prospetta dei fatti e non
tende a far racchiudere in un finale univoco, le vicende umane e psicologiche
dei protagonisti della storia. Essa esisteva già nel libro da cui è tratto. La
regista va oltre i profili tracciati dall’autore, li ritaglia per inserirli in
una “Horse opera” ( così si chiamava il Western agli albori del suo apparire
sullo schermo) tutta sua, inedita e ancor più inquietante.
Del western ci sono
tutti gli elementi, le costanti “sine quibus non”: chaps, cappelli, stivali, cavalli, bisonti,
polvere, pistole, ma che non sparano tanti colpi quali ci si aspetterebbe; sangue,
quanto basti, non a fiotti comunque; non si fa spettacolo di esso; la crudeltà si avvale
di mezzi ben più sottili e sofisticati.
C’è un pudore della scena che rivela quella formazione, imprescindibile, che pittura e fotografia hanno incanalato in
uno stile di regia unico e
inconfondibile.
Siamo dunque invitati
ad assumere lo stesso sguardo dell’autrice e a osservare una sequenza di “quadri”
che spesso e volentieri incorniciano un paesaggio lontanante che i campi lunghi
esaltano e restituiscono in tutto il loro muto splendore. Lo spettacolo lo dà
la natura, ad essa si demanda tutta la
drammaticità dell’esistenza e l’enigma che presiede e complica il nostro stare al mondo.
In quest’ immensità
dove i bisonti, i cavalli rubano la scena agli attori, la Campion colloca i
suoi personaggi, li muove, li svuota di viscere e sangue per farne delle figure
che, lungi dall’aderire agli archetipi del genere, chiedono allo spettatore di
dar loro quel bagliore di vita e di umanità che solo traspare dai loro volti e
dai parchi dialoghi, attraverso cui si snoda l’intreccio. Nei confronti della natura che ad
essi fa da sfondo, come i fondali fissi,
dipinti, della commedia dell’arte, gli esseri umani appaiono come presenze
minime, ma paradossalmente ingombranti,
in quel regno che sarebbe solo
vegetale e animale se l’uomo non lo avesse stravolto con la sua crudeltà e le
sue misere beghe. Esse sono riconducibili, per altro, solo a una manciata di
coppie di contrasti: odio/amore, gioia/dolore, giovinezza/vecchiaia, malattia/salute,
depressione/felicità, masochismo/sadismo, sterili e passeggere tribolazioni cui
solo la morte pone, inesorabilmente, fine.
La Campion ha asssunto lo stereotipo e lo ha modellato in
funzione di quella resa dei conti che, in questo western del 2021, non è,come
vuole la tradizione, tra uomini di pari energia e di opposti valori, ma tra l’essere
umano e la Natura che, condannandolo per la sua trascuratezza, l’ arroganza e
la presunzione, lo piega alla resa.
Anche la location, la Neo Zelanda, anziché il Montana, teatro dell’azione del
libro da cui il film è tratto, non è una
scelta di ripiego; il messaggio non ne soffre! Lo stesso vale per l’epoca: il
titolo stesso ci mette in guardia dal seguire
il racconto per il gusto di
immergerci in un passato ormai lontano, magari trascinati dalle tante citazioni tratte ad arte dalla migliore letteratura
cinematografica al riguardo e che è un
piacere, per gli occhi, riscoprire. Bisogna andare oltre e, per farlo, bisogna
metterci in sella a quei magnifici cavalli dei Burbank, i protagonisti della
vicenda, e fare una cavalcata attraverso il tempo che non perdona all’umanità
di essere rimasta immutata, rafforzando
le pulsioni negative piuttosto che cercare almeno un equilibrio sostenibile tra
bene e male, tra l’ istinto bestiale e la sublimazione di esso in quelle
forme che fanno dell’animale
uomo, un uomo. Egli infatti è rimasto
impassibile dinanzi allo scorrere degli anni; non ha saputo cambiare, se non solo qualche virgola, dai mitici tempi dei cowboy. Basti pensare al
costume grottesco scelto per l’assalto a Capitol hill, in occasione delle
ultime elezioni presidenziali negli U.S.A., perché il potere del cane balzi
dinanzi ai nostri occhi e riveli, in tutta la sua tragica evidenza, il senso
della metafora biblica cui il titolo del film allude.
La storia è esile.
L’odio tra due fratelli porta alla rovina gli altri membri della famiglia: la
moglie del “buono” George, che il
cattivo Phil esaspererà al punto da renderla alcool-dipendente e il figlio di lei, Peter che reagirà, sfoderando però una ferocia
uguale e contraria al torto subito e
alla sua iniziale commovente mitezza.
Nessuna pietà dunque
per quel cattivo che anzi, a poco a poco, proprio nel dialogo con Peter,
stava vivendo l’alba della sua
redenzione. In fondo, Phil era solo un
isterico, un uomo fragile che sfogava con la prepotenza, con la misoginia la
sua repressa, e non del tutto accettata, sessualità. Il fratello “buono” dal
canto suo, non aveva mai mostrato quell’energia affettiva che potesse
ammorbidire, almeno in parte, il carattere coriaceo del fratello ribelle, ma
non privo d’ intelligenza e senso dello humor (era laureato a Jale, non
dimentichiamolo!)
La figura femminile,
quasi un fantasma, evanescente ed eterea, distrutta dall’alcool e piegata dalle
vessazioni del cognato, riesce solo ad esprimere una “troppo” languida
tenerezza verso un figlio che, da vedova, prima di sposare George, ha cresciuto
come “una damigella”.
La casa dove vivono, il classico ranch la cui sagoma
nera si staglia sullo sfondo di uno
spazio sconfinato, come una sinistra scultura, foriera di morte. L’allusione al
“Motel” di hitchcokiana memoria è d’obbligo, come pure quei campi lunghi che
evocano atmosfere western di prototipi
eccellenti del passato: “Il Gigante” di Stevens e i “Sentieri
selvaggi” di John Ford ( entrambi del
1956), ai quali la Campion rende esplicito omaggio. Anche qui
spazi infiniti, selvaggi che la fotografia di Ari Wegner indaga
catturandone anche il silenzio; c’è un
mondo che sfugge alla caparbia presunzione
di dominio dell’uomo e che a volte lo
respinge con la sua asprezza, a volte lo seduce. L’ombra accogliente che
offrono negli ultimi”quadri” gli alberi secolari, affascina gli spettatori che si lasciano
volentieri attrarre da una fotografia
perfettamente complice di una regia esigente e mai certamente appagata
dal solo effetto paesaggistico. L’immagine è limpida, la simmetria delle linee
garantita, l’equilibrio delle parti degli elementi funzionali al racconto, sono
evidenziati con maestria. Gli attori, tra cui spiccano Benedict Cumbarbatch e
Kristen Dunst, i veri duellanti del
dramma, assecondano la regia che suggerisce all’uno una supponenza irritante e
caricaturale, all’altra una fragilità evanescente che tende all’annullamento di
se stessa. Niente a che vedere con quei caratteri che ce li hanno fatti
apprezzare in ben altri ruoli, ma non
per questo qui si rivelano meno degni di plauso, anzi non fanno altro che suonare un’altra corda della loro
padronanza scenica e maestria interpretativa.
L’”end”, che non
possiamo rivelare, per ovvie ragioni, ci lascia, va detto, non poche domande;
ci fa riflettere, ci interroga, soprattutto sul tema di fondo del film che è, a
mio avviso, il rapporto tra quello che, una volta, si definiva in termini di
contrasto netto tra Natura e Civiltà e che invece qui si traduce
in lotta tra Natura/Civiltà e quel lento crudele agire
dell’uomo contro tutto ciò che è Vita ed Etica della Vita. Questa amara conclusione fa di quello che potrebbe sembrare solo un
elegante revival, un’ opera d’arte!
Jolanda
Elettra Di Stefano
Il potere del cane ( Tratto dall'omonimo romanzo di T. Savage)
Premiato col Leone d'argento al Festival del cinema di Venezia 2021
Regia di Jane Campion
Interpreti principali : Benedict Cumberbatch - Kirsten Dunst
Fotografia : Ari Wegner
Scenografia: Grant Major
Musiche: Johnny Greenwood
Commenti
Posta un commento