Intervista impossibile a García Marquez
                      (Laboratorio di sceneggiatura della scuola
                             internazionale di cinema di Cuba)

Maestro, posso rubarle qualche minuto?

Prego! Ho lasciato liberi i miei alunni e riprenderemo tra un po’. Comunque, Gabo, mi chiami Gabo, qui tutti mi chiamano così!

Allora, maestro, lei si definisce uno che racconta storie, non l’intellettuale cui si può chiedere un parere su tutto.

Meno che mai colui che ha le risposte su tutto.

Escludiamo il tutto, focalizziamo qualcosa; per esempio, come costruisce un racconto?

Leggo, leggo moltissimo perché ogni racconto, anche il più bislacco e banale deve, a mio avviso, poggiare su di una verità, rintracciabile e attendibile nel contesto in cui è ambientata.

Eppure il fascino dei suoi racconti!... Anche i più realistici trascinano come un fiume in piena verso una dimensione autenticamente fantastica. Qual è il suo segreto?

Raccolgo una messe immensa (in questo sono maniacale!) di documenti prima di scrivere un romanzo e, quando non trovo, invento particolari e dettagli sicché tutto appaia assolutamente credibile, comunque vissuto.

Chi è il suo maestro in questo senso?

Ah, più che un narratore; da questo punto di vista devo molto al cinema neorealista italiano. Io mi sono diplomato al Centro Sperimentale del Cinema di Roma e, in particolare, considero mio maestro, e in effetti lo è stato, Zavattini. Forse neanche gl’Italiani lo apprezzano quanto merita. Le sembrerà ovvio, ma è a lui che devo l’aver compreso che i sentimenti sono più importanti dei principi intellettuali.

Va bene per i maestri, ma le fonti?

Prendo spunto da fatti, anche banalissimi, che  scorgo sui giornali e poi li nobilito con tutti gli espedienti della poesia e della favola, così come li ho appresi, spontaneamente, dai vecchi di Aracataca.

Aracataca! Solo il nome evoca un mondo dove solo si può essere vivi e veri!

Dove si è, anche se non si ha.

E il suo rapporto con il cinema?

Per certi versi sono partito da quello, e mi ha portato fortuna, giacché mi sono occupato d’altro; e mio figlio è regista. Meglio di così!...

Intendevo il cinema dal punto di vista creativo.

Lavoriamo in gruppo; alla fine poi è uno solo a scrivere: colui che ha avuto l’idea... indago anch’io il mistero della creatività, l’attimo esatto in cui l’idea nasce...niente da fare, per me, per te, come per chiunque...

 Accenni a qualcosa, per favore: un esempio, anche banale. Sto parlando con García Marquez!

Potrei solo dire che il semplice desiderio di raccontare storie si trasforma in una passione tale che un essere umano è capace di morire di fame o di freddo o di quel che sia, pur di assecondarla. E ciò vale per la carta scritta come per la celluloide.

Allora, qualche consiglio?

Bisogna imparare a scartare¸ un bravo scrittore si riconosce, non tanto da quello che pubblica, quanto da quello che butta nel cestino della carta straccia.

Dunque, vale anche per le sceneggiature?

Certamente! Solo che, in questo caso, spesso chi straccia, anche a torto, è il regista; quando non è il produttore. Il regista con cui ho lavorato meglio è Ruy Guerra, ma lo stesso potrei dire di Rosi... Esistono molti metodi per scrivere  sceneggiature, ma la verità è che nessuno serve davvero; ogni storia   porta in sé la propria tecnica. L’importante è poterla scoprire e tradurla in immagini.

Come?

A cinema le situazioni vanno rese esplicite. Bisogna mostrare, più che dire. La gente non sempre coglie le tematiche...io, per esempio, spesso mi addormento quando vedo i film per cui, nel concepire sceneggiature, penso a coloro che sono come me.

Tre film in cui non ha dormito?

Ah, certamente! “La corazzata Potemkin”, “Quarto potere”, “Il generale della Rovere”, interpretato da De Sica: sono i film che amo di più!

Come procede il lavoro delle sceneggiature?

Ci sono due maniere per concepire una sceneggiatura. La prima è cominciando dalla sintesi: si racconta il succo di una storia che ancora non si possiede, il cui sviluppo non si conosce. L’altra consiste nel raccontare passo passo quello che succede. A me sembra che sia più sicuro avere ben presenti le azioni e poi, con calma, riassumerle in qualche paragrafo e analizzarle per lo sviluppo.

E’ tutto chiaro. Lei si riferisce a un lavoro di gruppo. Vale lo stesso per un romanzo?

Il laboratorio è un gioco tramite il quale studiamo la dinamica di gruppo applicata alla produzione artistica, cioè, in questo caso, a un film; ma ciò non è possibile per un romanzo in quanto l’impegno del romanzo è assolutamente personale da parte dell’autore. Però il cinema dipende dalla letteratura; senza questa base, pur spoglia che sia, non ci sono film. Il gran difetto del cinema oggi, di tutto il cinema, non sta certamente nella tecnica, ma nella mancanza di idee originali.

 

Lei scrive per il cinema, ma poche delle sue opere sono state tradotte in film e non, per esempio, la sua creatura più bella: “ Cent’anni di solitudine”!

E’ difficile tradurlo in sceneggiatura; è nato come un romanzo ed è stato un Nobel. Va bene così...e poi... sarebbe una contraddizione in termini.

Perché?

Soledad non vuol dire solitudine, come voi intendete in italiano, bensì mancanza di risorse convenzionali; un mondo del genere si racconta con la parola; le immagini ognuno se le crea da sé.

C’è un Macondo nell’infanzia di tutti noi. E’ un luogo dell’anima!

Ecco, appunto: Un luogo così non può avere un sito Internet!

                                                                   Jolanda Elettra Di Stefano

 

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