VIAGGIARE  col CINEMA

   " Notturno" - Film - Regia di Gianfranco Rosi

Sarebbe bello  poter visitare paesi come il Kurdistan, l’Iraq, l’Iran, il Libano,  la Siria,  magari sorvolandoli con un tappeto magico, goderne il fascino, la bellezza, come ci viene descritta ne: “Le mille e una notte”, ma la realtà è ormai lontana anni luce dalle fiabe che pure la rappresentano, dunque oggi per conoscere e capire questa fetta di mondo, occorre  lo sguardo attento e vigile di  un regista come Gianfranco Rosi che con la sua opera “Notturno”   ci chiarisce le idee su una delle aree geografiche più problematiche del nostro pianeta.

Dimenticate le immagini di repertorio dei tg  che abbondano di violenza e macerie, seguiamo, adottandolo, quello stesso sguardo, quell’approccio niente affatto invadente del regista di “Fuocoammare”  che penetra pian piano, in quel limbo vitale , in quello spazio tra guerra e guerra, dove vive chi resiste con coraggio e con quella forza d’animo  che, sola,  in situazioni al limite della pura sopravvivenza, può portare a compimento il lento cammino verso la libertà .

Non c’è un luogo definito cui far riferimento. Le coordinate geografiche servono ben poco a identificare una precisa porzione di territorio: è il Medi Oriente, con tutta la sua pena,  a segnare confini privi di ragion d’essere, tracciati e disegnati sulla terra da una canna di fucile, dalle ruote di un carro armato e da quell’ infinita striscia di sangue che una spietata incommensurabile smania di potere, crea e impone. I confini, più che  paesi, dividono un’ideologia da un’altra,  una religione da un’altra,  una sfumatura di religione  da un’altra , dice lo stesso Rosi.

Il film è stato girato tre anni fa, quando la lotta contro l’Isis sembrava stesse dando esiti positivi. Oggi che tale vittoria, se mai ci sia stata, ha  avuto un’ ulteriore smentita,  il film non ha perso nulla della sua efficacia documentaristica, anzi merita maggiore attenzione  proprio per  l’inequivocabile universalità del messaggio.

La scena di esordio si svolge al confine tra Kurdistan e Iraq: una imponente fortezza-prigione racchiude prigionieri che presto saranno giustiziati. Alle madri affrante non resta che toccare quelle mura possenti e  immaginare di poter sentire pulsare il sangue dei loro figli, vittime di un massacro continuo in nome di leggi tribali. Nessuna pietà per il loro dolore. Tutto intorno desolazione e morte.

  Procedendo verso il confine tra Iraq e Iran, incontriamo un ragazzo: Alì che, protetto dal buio  a tratti illuminato dalle luci che indicano i pozzi di petrolio, si avvia al suo lavoro. E’ notte. Solo, prende una  barca ancorata in un ansa della palude, rema tra le canne e va, tranquillo e speranzoso di fare buona caccia. 

  Il paesaggio si addolcisce, vediamo sfumare il grigio in rosa  e poi in blu, in una danza di colori che sanno di speranza. Solo natura, avvolta dal silenzio e dalla nebbia. L’atmosfera è da alba del mondo e la foto esalta quei bagliori che l’acqua, limacciosa e stagnante, riflette.  Seguiamo Alì senza paura. Ha qualcosa da dirci, da insegnarci. Non siamo più solo spettatori, siamo dalla sua parte, qualunque essa sia, geopoliticamente parlando.  Conosceremo la sua casa, la sua famiglia, 4 fratellini e un neonato ancora in braccio alla madre. La loro poverissima dimora, un’ oasi di calore e vita in tanto squallore!

 Se la guerra è quell’orrore con cui, sappiamo bene che questi popoli convivono da tempi immemorabili, aspettando e resiliendo come meglio possono, quale migliore metafora per rappresentarli, se non  lasciare che malati di mente, all’interno di un ospedale psichiatrico, le ricostruiscano?!  E’ dunque dalle loro stesse voci, dalle loro grida disperate,  che apprendiamo con chiarezza lapalissiana cause ed effetti di questo eterno conflitto sul cui fuoco soffia, non versa acqua, l’occupazione  straniera. -“Non so cosa ti accadrà paese mio, a causa dei governi corrotti che hanno anteposto gli interessi degli stranieri a quelli locali, non so quale sarà il tuo futuro, patria mia!-  Il paese ha intrapreso la strada della morte. Possiamo voltare la pagina, ma essa rimarrà a lungo nei nostri ricordi, stiamo correndo, correndo, ma non sappiamo  dove andremo a finire. L’invasione ha causato problemi e scatenato una guerra civile: i vicini hanno iniziato a uccidersi tra loro, in molti sono stati deportati . Le persone fuggono terrorizzate dai massacri, le strade pullulano di cadaveri, auto bombe, cinture esplosive. Abbiamo perso ogni sicurezza, si sono infiltrate le organizzazioni terroristiche, vogliono riportarci al medioevo, hanno costruito uno stato di morte  dove le donne sono vendute come bottino di guerra. Tutto è perduto! Speravamo in una primavera di rose, pace e amore invece è arrivata una primavera di guerre in cui uomini dello stesso paese si uccidono fra di loro, una primavera di macerie e di tenebre”!

Bagdad - Ancora più atroce il racconto dei bambini che le organizzazioni umanitarie sono riuscite a strappare alla ferocia dei fighters in nome della Jihad.  
Colpisce non poco il messaggio di quest’ ultima fatica di Gianfranco Rosi, il quale, giocando con un montaggio, solo apparentemente disorientante, si dimostra abile nel riannodare infine, il filo delle vicende narrate. Così facendo  riuscirà anche ad annullare quella sottile linea d’ombra che separa un film da un documentario e ci consegna un’ opera d’arte  che, come le sue precedenti, non ammette “distinguo”.  “Notturno”, lo stesso titolo evoca le note di Chopin ed il film potrebbe essere  una sinfonia, un quadro del Caravaggio poiché, in esso, il senso della bellezza, non è cornice, non è decoro, ma scaturisce  dalla realtà  osservata con sincera ed onestissima  volontà  di far conoscere tutto ciò che non può più essere  ignorato.

E così che dal buio, anche fotograficamente parlando, scaturisce la luce:  una casa illuminata, un focolare acceso, una famiglia; quel segno di speranza di pace,  che nessun’ arma,  e nessun trattato internazionale redatto  a distanza siderale rispetto ai veri bisogni di questa gente, potrà mai garantire. Anche un insieme di tende,  montate in una landa desolata, perdono il loro grigiore, sfumano nell’azzurro che la pioggia, complice dello sguardo affettuoso del regista, esalta coi suoi  riflessi trasparenti e dorati. La realtà è trasfigurata; appare a tratti, come dovrebbe essere un buon auspicio per quella fetta di umanità che solo  implora che l’umano torni umano.

Come dal buio la luce, dal silenzio si leva piano una musica dolce, malinconica,  una nenia, un “canto de cuna” per alleviare il dolore delle madri che non vedranno più o disperano di vedere quei figli ai quali, come tutte le mamme del mondo, lo hanno cantato,  quando li cullavano da bambini.

   L’ ultima immagine: il volto di Alì  che  guarda lontano, lontano, verso un futuro che sarà per tutti  più umano  o non sarà!

                                   Jolanda Elettra Di Stefano                                                                                              

                                                                                                                                             

 

 

 

 

 

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