Viaggio a Kandahar

Questo non è un viaggio da consigliare, piuttosto purtroppo,  un viaggio da conoscere e su cui riflettere.  La tragedia che si svolge dinanzi ai nostri occhi, inorriditi ed increduli, non  ci può lasciare indifferenti e, se anche non ci avesse scosso  vent'anni fa, la tragica attualità dimostra che il tempo è scaduto, il fondamentalismo ha ripreso i suoi spazi e messo in ginocchio l’Afghanistan:  il popolo afgano soffre. L’estremo tentativo di chi fugge, anche  attaccandosi ad un aereo in partenza,  parla da solo! Non c’è nulla da aggiungere che non suoni come pura retorica !

Riprendo dunque, senza cambiare una  virgola, la recensione che scrissi  vent'anni fa, in occasione dell’uscita nelle sale, del film. “Viaggio a Kandahar”, di Mohsen Makhmalbaf: è questa  la mia preghiera per il popolo afgano!  

Dopo il crollo delle torri gemelle, precipitate al suolo con tutto il loro carico di lutti e di morte, nulla sarà come prima, si sente dire da più parti, i libri di storia , saranno riscritti da tutt’altra angolatura,  quelli di geografia ristampati in toto e, in gran parte, relegati in soffitta. Cosa ci dicono essi infatti sull’Afghanistan : che “è un paese povero di  risorse, abitato da  tribù di musulmani nomadi che vivono di pastorizia e commercio locale”, non bene identificato. Apprendiamo invece dai media, bontà loro, che l’ottanta per cento della produzione mondiale dell’oppio viene proprio dall’Afghanistan e che essa alimenta il commercio illegale dell’eroina, realizzando un fatturato annuo macroscopico, a fronte di un P.I.L, tra i più bassi del mondo e delle inevitabili conseguenze che esso determina.

Ma noi occidentali, spesso distratti e in tutt’altre faccende affaccendati, non abbiamo mai prestato molto orecchio al grido di dolore che pure da quella parte di mondo, da vent’anni a questa parte, si è alzato verso di noi. Purtroppo però il mondo ha tremato l’11 settembre  e da quel giorno nulla potrà veramente essere identico, anche per la nostra atavica, colpevole indifferenza. Neanche il tempo di rendersi conto dell’immane tragedia che si è abbattuta sull’America e gli americani, che la risposta della prima potenza armata del globo ha fatto balzare, in tutta la sua drammatica evidenza, una realtà subumana, di cui le donne soprattutto, emarginate, maltrattate, umiliate ed oppresse, subiscono le peggiori conseguenze. Il film : “Viaggio a Kandahar” ci aiuta a capire e di questo scempio ci impedisce di poterci dichiarare innocenti.

Apprendiamo infatti che in Afghanistan ogni cinque minuti, qualcuno muore, di guerra, di carestia, di feroci epidemie come di banalissimi malesseri per i quali non esistono farmaci, né si conoscono rimedi di sorta. Una scena parla da sola: una donna in preda ai crampi della fame viene visitata da un medico cui porge la bocca o l’orecchio o l’occhio da un foro della tenda, dietro la quale è costretta a nascondersi per sottrarsi alla vista dell’uomo che pure dovrebbe curarla. Miseria nera, diagnosi semplice, cura altrettanto facile da prescrivere! Il medico porge alla bimba della paziente un’enorme pagnotta aggiungendo secco: “Tre volte al giorno; mattina, mezzogiorno e sera “. E’ un rimedio che potrebbe consigliare chiunque, già, infatti l’uomo di cui sopra non è affatto un medico, non serve in Afghanistan un dottore, per salvare delle vite umane, basta un uomo di buona volontà , fuggito dall’Occidente, in cerca dell’amore eterno.

Il film procede mostrandoci persino le scuole dei talebani e l’orrore di una didattica finalizzata alla morte che attinge ad un “Corano” rivisitato e corretto a fini politici perversi e certamente sacrileghi. E non è tutto; sempre a scuola tra una materia e l’altra si insegna alle bambine come evitare il costante pericolo di morte che può presentarsi anche camuffato da “bambola”.

Chi ci guida in questo “viaggio” verso Kandahar,  città oggi bombardata, è Nafas, giornalista, fuggita all’angoscia di una vita impossibile che torna dal Canada, dove oggi vive, per salvare la vita alla sorella che ha deciso di suicidarsi come tante, troppe donne sono costrette a fare in Afghanistan.  Mimetizzata dal”burka” che le consente di passare inosservata, Nafas attraversa con coraggio e abnegazione, il deserto dove pure è nata, ma insidie, inganni, crudeltà, sadismo e follia le sbarrano la strada e raggiungere la meta si rivelerà sempre più una vaga e pallida speranza.

             Dedicato a tutti coloro che stanno perdendo la vita in questa guerra infinita  e a tutte quelle vite che non riusciremo a salvare !

                                                                                                                                                                                                Jolanda Elettra Di Stefano

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