“ Picnic ad Hanging Rock”(tratto dall’omonimo romanzo di
Joan Lindsay)
Hanging Rock –
Australia - Ecco una meta affascinante
da suggerire a chi volesse, persistendo le attuali difficoltà di movimento nel mondo,
viaggiare col cinema. Peter Weir, oggi celebre cineasta, vi ambientò il suo
primo lungometraggio; così facendo si impose ed impose all’attenzione del
pianeta il cinema del suo paese, fino ad
allora praticamente sconosciuto. In
questo film Weir racconta un dramma che
sembra scaturire, in maniera ineludibile, dal paesaggio stesso della sua terra,
almeno come lui la descrive. Narra un’antica leggenda infatti che ad Hanging Rock, oggi meta turistica tra le più amate e visitate del continente,
proprio queste rocce, da cui il sito prende il nome, spaventose alla vista e
rese ancor più terribili dal loro aspetto antropomorfo, attraevano inesorabilmente chi osasse
addentrarsi tra i loro meandri perché, dalle loro crepe si scatenava una forza
irresistibile, misteriosa e violenta, che fagocitava tutto ciò che riusciva a
ghermire e travolgere. Accadde qualcosa di simile il 14 febbraio del 1900,
giorno di S. Valentino, nel corso di un’uscita didattica finalizzata allo
studio e all’analisi dal vivo delle peculiarità di quell’intrigantissimo contesto
naturale: tre allieve di un prestigioso collegio australiano e la loro
insegnante, scomparvero nel nulla. Solo una ragazza dell’intero gruppo tornerà
indietro sconvolta e in stato confusionale.
Gli amanti dell’horror
sappiano che questo film può fare impallidire registi che operano nel genere,
con meno gusto, meno sensibilità, meno intelligenza e con intenti assai meno
nobili. Qui è di scena la paura sì, ma quella autentica, ancestrale,
irresistibile, dell’uomo dinanzi alla natura che spesso si rivela “matrigna” e,
al contempo, si indaga su quel fascino che essa esercita sull’essere umano,
sul desiderio di quest’ultimo, di
conoscere l’ignoto, di scoprirne i segreti, per leggere più a fondo dentro se stesso. Il messaggio, anzi i
messaggi di questo “mistery” vanno ben al di là dell’eleganza delle immagini,
volutamente curate e definite con estrema raffinatezza, perfettamente adeguate
a quelle delicate figure di adolescenti, protagoniste della dolorosa vicenda, alla
classe e al prestigio del contesto socioculturale cui appartengono e di cui
sono emblema. Ma non alla forma bisogna fermarsi per apprezzare un artista come
Weir, quello a cui, per altro, dobbiamo l’eternità dell’ “Attimo
fuggente”, perché è proprio partendo da
questa inquietudine che l’autore trasmette con ogni elemento della scena,
compresa la musica, geniale intuizione di Bruce Smeaton, che si rivela quel
“fil- rouge” che legherà tutte le opere che il regista realizzerà in futuro. A
questo inconscio iter progettuale egli infatti si atterrà, dimostrando lucida,
innegabile, coerenza, nel significare l’eterna lotta tra cultura e natura.
Jolanda Elettra Di Stefano
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