"Megalopolis" (2024) regia di Francis Ford Coppola

“I sogni sono ancora sogni e l’avvenire ormai quasi passato…” cantava Luigi Tenco; togliamo il quasi e vien fuori “Megalopolis”, “Il sogno lungo…  40 anni” che il regista Francis Ford Coppola, ha potuto finalmente realizzare, producendoselo da se. La MGM, mega casa di produzione americana, che pure aveva manifestato il suo interesse verso questo, allora solo progetto, lo respinse ritenendolo  troppo ambizioso, eccentrico e costosissimo; evidentemente non apprezzò il  valore di  un’opera che invece oggi  lascia interdetti per l’attualità del suo messaggio, per quello che ci racconta della realtà complessa e  spesso indecifrabile   che viviamo e  che questa favola distopica e disorientante, riflette a pieno. Per discuterla  e coglierne i molteplici significati, allontaniamo il ricordo, sempre vivo, di “Apocalisse now”, film col quale Coppola, attingendo alla lezione di Conrad, condannò l’orrore della guerra e la sua macabra inutilità, imponendosi come una delle voci più autorevoli nel vasto panorama del cinema internazionale. Accantoniamo la saga sontuosa e lugubre del “Padrino” nella quale  il grande regista ha trattato il tema “mafia” in maniera tanto esaustiva da fare impallidire coloro i quali, e furono tanti in seguito, cercarono invano di emularla. Recuperiamo invece l’atmosfera di altri capolavori del maestro, a torto dimenticati, come “La Conversazione” o le immagini baroccheggianti e visionarie di “Rusty il selvaggio” (pessima traduzione del titolo originale: “Rumble fish”) e troviamo il bandolo di quest’opera che  attira e respinge, affascina e delude per  poi  trascinarci tra le sagome ruotanti   di  una giostra che gira vorticosamente,  impedendoci di pensare. Perché dovremmo? La realtà è fuori da ogni logica, lo spazio è circoscritto, il tempo, chiodo  fisso di Coppola dai tempi di “Peggy Sue si è sposata,”  si lascia stravolgere dall’autore che mescola passato, presente e futuro, creando  una dimensione surreale simile a quella suggerita dagli “orologi“ di Salvador Dalì che squagliano e si adagiano piano, verso un eterno, piatto presente. La vita appare  in sintesi, come quel famoso rompicapo del gioco del “Cubo” che sanno  risolvere solo pochi eletti: artisti, poeti, musicisti, scrittori, filosofi, architetti, perché no? L’architettura è musica congelata, come essi dicono; può fornire la tessera mancante, la chiave del mistero che regge l’universo, scoperta la quale si può costruire un mondo nuovo, migliore, accogliente, inclusivo  e talmente avveniristico da poter scongiurare, per esempio, anche il disagio della pioggia, giacché  l’arch. star Caesar Catilina, il protagonista di questo bizzarro racconto, è riuscito a progettare  dei provvidenziali pannelli che, al cadere delle prime gocce,  potrebbero stendersi automaticamente sulle persone, proteggendole dall’acqua. Risibile invenzione però se pensiamo alle alluvioni che stanno sommergendo la terra! “ Quo usque tandem -dunque- Catilina abutère patientia nostra?”  Le intuizioni luminose  sono pura utopia! – ammonisce Franklin Cicero, il sindaco di New Rome, la città immaginaria dov’è ambientata la vicenda narrata,  rivolgendosi al geniale urbanista che sta progettando Megalopolis, una nuova New York, ricostruendola dalle macerie del disastro che l’ha quasi rasa al suolo. Non è mai accaduto, ma certo si allude a quel settembre nero in cui con le torri gemelle crollò l’Occidente e tutta la sua sicumera, quell’insieme di valori, principi istituzionali, quel sistema geopoliticamente compatto che divideva manicheamente il mondo in due compagini ben salde e impermeabili l’una per l’altra. “Questa è la fine “ cantavano i Doors accompagnando l’incipit di “ Apocalisse now”.  Aveva detto  tutto Coppola, bisognava ascoltarlo, oltre che fare di lui  una leggenda, e  non aspettare che il “terribile” accadesse  per correre ai ripari! Oggi il maestro per divertirci e scuoterci ha scritto una favola, dove tutto grazie all’estro dei suoi eccellenti collaboratori, scenografi, costumisti, designers, arredatori, stilisti e parrucchieri,  è maniacalmente curato per creare una elegantissima caricatura  dell’antica Roma, utilizzando delle maschere che tanto somigliano alle nostre,  quelle con le quali nascondiamo la fede in ideali nei quali non crediamo più o che non abbiamo più la forza di difendere  e, non avendone creati di nuovi, vegetiamo immersi in una palude, dalla quale è impossibile emergere; pandemie non previste in tempo e crisi climatiche sottovalutate hanno fatto  il resto! “Sic transit gloria mundi”, recita un celebre proverbio latino, e ripassare un po’ di storia torna utile per cogliere, al meglio, il senso di questo film. L’Impero romano d’occidente  nel 476 D.C è morto e “gli Stati Uniti non stanno molto bene” sicchè, a documentarne la fragilità innegabile, non c’è che recuperare il loro correlativo oggettivo del passato,  quell’epoca decadente che esprimeva il suo tramonto nell’amore per il lusso per esempio, nelle sue forme più pacchiane  e riesumare il latino,  in una forma che, per quanto caricaturale, rende l’idea di una classicità   che ha ancora tanto da insegnarci se sappiamo apprezzarne la  saggezza, le  raffinatissime sfumature di quell’arte che la parola ha trasmesso, quella profondità di sentire che abbiamo perso irrimediabilmente.  Con questo nobile intento Coppola ricrea  una Roma a New York, crea personaggi il cui nome allude allo stereotipo che li ha consegnati, declassandoli, dalla storia al luogo comune. C’è Cicerone, filosofo, letterato,  avvocato e politico di altissimo rango, qui  sindaco ultraconservatore, classista convinto, però, dotato di buon senso e soprattutto di una sana(?) vocazione al risparmio.  Giancarlo Esposito, l’attore che lo interpreta  ne fa una simpaticissima macchietta. C’è  Licinio Crasso (John  Woight), l’opulento patrizio coinvolto da Cesare e Pompeo nella gestione della cosa pubblica, in qualità di triumviro; qui un volgare affarista, assetato di potere e abile nel comprarselo con ogni mezzo. C’è Catilina  che qui non è però quel figlio di buona madre, che la storia tramanda, ma  Caesar Catilina, un geniale architetto che tutti invidiano e che cercano di rovinare. Perfetto come sempre, Adam Driver,attore poliedrico, capace di interpretare con grande disinvoltura i ruoli più disparati: l’umile poeta di ”Pattherson” per Jarmoush, “L’uomo che uccise Don Chisciotte” per Terry Gilliam, il menager-padre della Ferrari, per M. Mann o Jack Gladney quel prof. esasperato dall’inquinamento in  “Rumore bianco” per Noha Baumbach. C’è  il tribuno Clodio,  Clodio pulcher, politicante arruffone , rozzo capopolo, avido, ignorante e pronto a vendersi al maggiore offerente .   Su tutto e su tutti regnano sovrani i vizi umani, l’avidità, la sete di denaro e potere, l’invidia e la sua ormai inseparabile compagna, la calunnia e, di quest’ultima,  le devote casse di risonanza: mass media  e  social network ,  coadiuvate, a loro volta, da ogni forma d tecniche di intrusione per spiare “Le vite degli altri” e farne carne da macello! Ecco che di colui che progetta il futuro, uomo integerrimo in verità, si dice che abbia ucciso la moglie e ricavato coi resti del suo cadavere il “Megalon”, materiale rivoluzionario che gli è valsa la fama di cui gode. Unica soluzione: eliminarlo! Perché mai agevolarne il meritato successo se la mediocrità , lo standard di riferimento della società tutta, trionfa in ogni campo  e può  così  liberarci da ogni complesso?! Sesso, droga, Rock and Roll “et similia” animano le notti di questo eterno carnevale interminabile come la cena di Trimalchione, descritta da Petronio, grande assente in tanta abbuffata di latinità, ma presente in spirito giacché tante scene di Megalopolis rimandano al  suo Satyricon, così pure all’originale trasposizione che ne fece Fellini, nel 1969, animato dagli  stessi intenti: rendere l’oggi con le maschere di ieri, con la differenza che, mentre il racconto felliniano, staccandosi dall’originale, lascia trasparire un delicato invito a riflessioni di carattere religioso, la favola di Coppola ha un finale enigmatico e troppo lieto da  rasentare il ridicolo! Ci mostra una scena idilliaca, che sancisce   un’insperata conciliazione tra  gli opposti; la politica e l’arte hanno optato per  una sana collaborazione. Giulia  Nathalie Emmanuel, l’unico vero volto umano, splendida anche in trasferta dal “Trono di spade”) e  Caesar Catilina  convolano a nozze e mostrano felici la loro bambina: la piccola però ci guarda perplessa, sembra interrogarci sul valore di quel futuro di cui sarebbe simbolo e sembra dire: “Larga la foglia , stretta la via, dite la vostra, io non so se potrò dire la mia “  e ci ricorda la battuta finale di “Metropolis”, dell’architetto regista Fritz Lang : “ Mediatore tra il cervello e le mani deve essere il cuore!” Conclusione meno apocalittica e meno ironica per un’opera  che il maestro dedica a Eleanor, l’amatissima moglie da poco scomparsa.

                                                                 Jolanda Elettra Di Stefano         

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