Ho scritto questo
articolo nel 2016, per la rivista dell’AIIG,Geografia per le scuole. Lo
ripropongo qui perché i fatti cui alludono i film
scelti sono a tutt’oggi di tragica, pressante attualità.
CINEMA E GEOGRAFIA
Una volta il giro del mondo si faceva in 80 giorni, oggi i viaggi low-cost ce lo assicurano per molto meno, ma il turista mordi e fuggi torna a casa confuso e a volte nemmeno ricorda di essere partito. Eppure si può viaggiare anche grazie al cinema, meravigliosa sintesi di “verità e bellezza, che ha saputo meglio di ogni altro mezzo con cui l’umanità ha espresso se stessa, ricreare il mondo, farlo conoscere come mai avremmo sperato. Per dirla con Sartre a far sì che “nessuno possa ignorarlo né in alcun modo potersene dichiarare innocente”.
E’ in quest’ottica che invito a seguire questa carrellata di film che non può né vuole essere esaustiva, ma che, attraverso pochi cenni ed allusioni che le immagini suggeriscono, intende far cogliere anche quei messaggi che vanno al di là dei contenuti più o meno espliciti e che spesso, soprattutto sotto il profilo scenografico, possono rivelarsi fonti utilissime dal punto di vista, non solo etico ed estetico, ma antropologico e geopolitico. A tal uopo citerò quei film che sono stati, non solo ambientati, ma anche scrupolosamente girati in quei luoghi, in quelle fette di mondo di cui sono riusciti a rendere, spesso in maniera sorprendente, il carattere e l’anima.
Quando penso a New York, per esempio, le prime immagini cinematografiche che mi vengono in mente sono quelle di “Manhattan” (Woody Allen-1980). In questo film il regista, rinunciando al colore e usando un rigoroso ed elegante bianco e nero, crea scene indimenticabili nelle quali concentra ed esalta tutto il fascino di una città bella e impossibile, alla quale seppe restituire un volto più vero ed umano. Siamo nel 2016. Purtroppo, dall’anno del terribile attentato alle torri gemelle, lo skyline di New York non è più lo stesso, sicché siamo a malincuore costretti a fare altre scelte che possano rappresentare, in termini più attuali, e dunque per nulla romantici, la grande mela. C’è più America infatti in quella piatta e baggiana luce giallastra, a tratti repellente, che rende anonima e perversa New York, come anche Las Vegas, l’altra città che fa da sfondo al film “La grande scommessa” (USA 2015-tratto dal libro: ”The big short - Il grande scoperto“) sullo scandalo della Lowen and Brothers, la più importante banca statunitense, scandalo che tanto ci spiega della crisi che attanaglia tutto il mondo e ci rende anche tanto fragili agli occhi di tutti quei professionisti del terrore che mietono vittime in ogni angolo del pianeta.
Non possiamo lasciare L’America senza fare un accenno a “The hateful eight” di Quentin Tarantino, oggi in corsa per gli Oscar. Gli odiosi otto del titolo, come li definisce lo stesso regista, alludendo ironicamente ai “Magnifici sette di un tempo”, è un western che “venne dal freddo”, potremmo dire. Sullo sfondo niente praterie, deserti dalla sabbia rovente, pistoleri in jeans con cappelli alla cow-boy; niente folclore insomma né luoghi comuni sul genere. Qui è di scena un cold west con temperature proibitive, ambientato nel Wyoming e in gran parte girato in Canada, nei dintorni della gelida Calgary, alle falde delle Montagne Rocciose. Bloccati da una tempesta di neve, infatti, si ritrovano in un rifugio uno sceriffo, un cacciatore di taglie, una fuori legge, un becchino, un messicano, un mandriano, un ex nordista e un ex sudista: una good company insomma da cui ci si può aspettare di tutto e tutto accadrà. L'autore lo descrive così: ”Le vicende che narro sono funzionali ad un messaggio squisitamente politico. Questo è il mio film più politico, attraverso di esso intendo significare le tensioni razziali che oggi viviamo nonché i tragici eventi di questi ultimi anni”. Affermazione lapidaria e inequivocabile! Da notare la colonna sonora di questo film che è opera di un‘eccellenza italiana, il maestro Ennio Morricone, che, per questa ennesima sua composizione è candidato all’Oscar e la sua musica si rivela, come sempre, sottofondo discreto e commento imprescindibile per le immagini, da cui sembra scaturire con assoluta naturalezza.
A proposito di neve e di temperature proibitive, imposte dal regista a tutta la troupe per rendere più veritiero e geograficamente valido il prodotto finito, va citato, il film “Everest”, diretto dall’islandese Balthasar Kòrmakur, ma girato in Italia, sulle Dolomiti. Sicché: “Grazie per averci scelto!” Esula però dal nostro percorso che, invece, ci porta in Asia, nello Sri Lanka per seguire le vicende di “Dheepan”, il protagonista dell’omonimo film di Jacques Audiard, presentato al festival di Cannes lo scorso maggio e premiato con la Palma d’oro. Dallo Sri Lanka, isola splendida, dalla vegetazione lussureggiante, dal clima già caldo, ma reso rovente, e dunque invivibile, dalla guerra civile, Dheepan fugge alla volta di Parigi con l’intento di chiedere asilo politico e ricostruirsi una vita degna di questo nome. Lo “accoglie”, si fa per dire, una Parigi, inospitale e reietta, quella delle banlieues che, in questo film, vediamo descritta nella sua grigia quotidianità, in quella forma indesiderabile che la fa somigliare a qualunque angolo di mondo dove regnino sovrane: emarginazione, miseria, solitudine e disperazione. Eppure è qui, in questa tappa non definitiva, ma per certi versi obbligata, che Dheepan comincia a rinascere e la scena che ne significa il riscatto, è indimenticabile fotograficamente, cinematograficamente e umanamente parlando. Vedere fluttuare, minuscole farfalle fluorescenti (non a caso “farfalle”, per uno che viene dal paese dove pare ci siano le farfalle più belle del mondo) che si accendono e si spengono nel buio; è un espediente scenico originale che regala un’emozione intensa e inconsueta. Se solo pensiamo che questi punti luminosi che appaiono sullo schermo altro non sono che le bagattelle che il nostro eroe è costretto a vendere per vivere, la scena ci commuove ancora di più.
Avremmo voluto ricordare Parigi col suo abito più bello, quello che ha creato per lei Woody Allen in “Midnight in Paris”; avremmo voluto, più volentieri, seguire il protagonista nella sua suggestiva, benché surreale, passeggiata nello spazio e nel tempo, camminare su un tappeto di foglie dorate, bagnate di pioggia, immersi in un’atmosfera magica, ma siamo costretti a tornare alla realtà, Dheepan lascerà Parigi, non quella dei sogni, ma quella reale che non rende più quel che promette; oltrepasserà la Manica e a Londra, finalmente, avrà fine la sua lunga e tormentata odissea. L’Inghilterra, appare complessa e sofisticata, ma anche ricca e tollerante. Qui possiamo alleggerire il discorso e riposarci sulle verdi colline del Dorset che degradano dolcemente verso la Manica. Ce ne offre l’opportunità il film di Thomas Vinterberg, “Via dalla pazza folla” (intendiamoci- nulla a che vedere col capolavoro di Schlesinger di cui è un modesto remake né con il bellissimo romanzo di Thomas Hardy da cui è tratto). Il regista qui rende un meraviglioso omaggio alla pittoresca campagna inglese che dipinge con amore e con la complicità del fotografo di scena che ha saputo creare immagini che sono un autentico piacere per gli occhi oltre a costituire un convincente invito a visitare questi luoghi, tanto rasserenanti e suggestivi, perfetti per un week end di S. Valentino.
Dalle pecore accudite con tanta cura dai protagonisti di “Via dalla pazza folla” che ci offrono un perfetto esempio di amicizia uomo-animale e di verosimile integrazione tra uomo e natura, rimanendo in tema, ci spostiamo in Islanda. Quest’isola quest’anno, per la prima volta, è approdata sulla Croisette col film ”Rams”, di Grìmur Hàkonarson. L’opera ha talmente convinto la giuria del Festival di Cannes, da essere proclamata vincitrice per la sezione “Un certain regard”. Il film, tra i vari pregi ha quello di farci conoscere l’Islanda e ricordarci che esiste, sta bene, anche se non benissimo, e fa cinema di qualità. Quella che racconta è la storia, come suggerisce il sottotitolo, di due fratelli e otto pecore, non una favola bucolica bensì un dramma familiare, quello di due fratelli divisi da un’atavica rivalità. Le immagini ci mostrano un mondo a sé, ma, per quanto freddo e poco attraente, non privo di fascino. L’atmosfera é impalpabile, il silenzio innaturale. I due pastori protagonisti della vicenda sembrano essere un tutt’uno con questo paesaggio dalle mille sfumature di bianco e appaiono lontani anni luce dal nostro solare disordine; ma il dolore ce li fa sentire più vicini e ci invita a ridimensionare le nostre piccole e grandi miserie . Dall’Islanda una lezione di vita e di morale.
Neve e pioggia ci portano a Berlino, la Berlino del “Ponte delle spie”. Sotto il profilo climatico e scenografico il film non ci dice nulla di nuovo, ma è proprio quest'atmosfera cupa, questo grigiore angosciante che rende l’idea del dramma che quest’ ennesima prova d’autore del maestro Steven Spielberg intende documentare. Il ponte cui fa riferimento il titolo é quello di Glienicke, quel gelido “porto franco” dove, durante la guerra fredda, avvennero gli scambi di prigionieri tra i servizi segreti americani e gli agenti della Germania orientale. (Forse vale anche la pena di ricordare che durante le riprese del film la signora Merkel, in pectore, materializzandosi sul set ha reso omaggio al regista di “Schindler list” e all’impeccabile protagonista Tom Hanks). Berlino appare tetra, claustrofobica; ci sono più interni che esterni in questo thriller che la storia stessa ha scritto. La fotografia è scarna documentaristica ed essenziale, del resto quello che conta, in questo caso, è la geografia dei volti perché da ogni piega, da ogni impercettibile segno del viso, dipendono delle vite da salvare, tedesche, russe, americane; che importa … vite umane!
E vite umane, saranno anche quelle per le quali si prodigherà un giovane studente di medicina, tal Ernesto Che Guevara, nel corso del lungo e rocambolesco viaggio attraverso un intero continente, l’America Latina, documentato e descritto con affettuoso rigore dal regista Walter Salles e dai suoi collaboratori, l’attore e regista Robert Redford e il giornalista italiano Gianni Minà, nel film: “I diari della motocicletta”. E' così che scorrono dinanzi ai nostri occhi immagini meravigliose, paesaggi incantevoli, che ci fanno conoscere un Paese straordinario e insieme, come un dono della natura, sentimenti profondi come l’amore, l’amicizia, la compassione, la solidarietà, la fratellanza. Ci siamo anche noi sulla “Poderosa”, quella motocicletta sgangherata che scoppietta allegra lungo “las carreteras” dell'America latina e ci pare di vivere così, un'esperienza indimenticabile!
Lasciamo l’America, non senza nostalgia, e riprendiamo la via del ritorno, sorvolando i cieli dell’Australia. Ad essa dedichiamo l’omaggio del suo figlio meritatamente più amato e conosciuto all’estero, Peter Weir, colui che, con “Pic Nic a Hanging Rock”, si impose ed impose all’attenzione del mondo, il cinema del suo paese, fino ad allora praticamente sconosciuto. In questo film Weir racconta un dramma che sembra scaturire in maniera ineludibile dal paesaggio stesso della sua terra, almeno da come lui ce la descrive. Narra un’antica leggenda, infatti, che ad Hanging Rock, oggi affascinante meta turistica, tra le più amate e visitate del continente, proprio queste rocce da cui il sito prende il nome, spaventose alla vista e rese ancora più terribili dal loro aspetto antropomorfo, attraevano inesorabilmente chi osasse addentrarsi tra i loro meandri perché, dalle loro crepe si scatenava una forza irresistibile, misteriosa e violenta che fagocitava tutto ciò che riusciva a ghermire e travolgere. Accadde qualcosa di simile il 14 febbraio del 1900. Durante una gita scolastica, oggi diremmo una visita didattica, per studiare ed analizzare dal vivo, le peculiarità di quell’intrigantissimo contesto naturale. Tre allieve di un prestigioso collegio australiano e la loro insegnante, scomparvero nel nulla. Solo una ragazza del gruppo tornerà indietro sconvolta e in stato confusionale. Gli amanti dell’horror sappiano che questo film può fare impallidire registi che operano nel genere con meno gusto, meno sensibilità, meno intelligenza e con intenti assai meno nobili. Qui è di scena la paura sì, ma quella autentica, ancestrale, irresistibile, dell’uomo dinanzi alla natura che spesso si rivela “matrigna” e al contempo il fascino che essa esercita su di lui, il desiderio di conoscere l’ignoto, di scoprirne i segreti per leggere più a fondo dentro se stesso. Il messaggio, anzi i messaggi di questo mistery vanno ben al di là dell’eleganza delle immagini, volutamente curate e definite con estrema raffinatezza (perfettamente adeguate del resto, a quelle delicate figure di adolescenti, protagoniste della dolorosa vicenda, alla classe e al prestigio del contesto socio-culturale cui appartengono e di cui sono magnifico emblema). Non alla forma bisogna fermarsi per apprezzare un artista come Weir, perché è proprio partendo innanzi tutto da questa inquietudine che l’autore trasmette con ogni elemento della scena, compresa la musica, geniale intuizione di Bruce Smeaton, che si rivela quel fille-rouge che legherà tutte le opere che realizzerà in futuro. A questo inconscio iter progettuale egli infatti si atterrà, dimostrando lucida, innegabile coerenza nel significare l’eterna lotta tra cultura e natura.
La rotta verso casa ci spinge verso l’Africa, già l’Africa. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per farla balzare subito dinanzi ai nostri occhi, potrebbe bastare un nome per tutti: ”Casablanca”, o “La mia Africa “, ma il gioco diventerebbe troppo facile e quella che ne verrebbe fuori sarebbe pur sempre un’Africa catturata dallo sguardo di noi occidentali sempre pronti a commuoverci e più raramente ad agire. Non meritiamo tanta bellezza; i tempi non lo consentono. Quotidianamente arrivano notizie che documentano dolore ed orrore sicché meglio scegliere, senza troppo rifletterci, un filmetto snobbato dalle sale istituzionali: “Good-Bye Bafana” ovvero “Il colore della libertà”. Dimenticate Il Kenya della Blixen, Il tè nel deserto di Bertolucci, le atmosfere patinate di “Assassinio sul Nilo “ di J. Guillermin “ e le loro lussuose, costosissime scenografie, caliamoci in uno spazio ristrettissimo, quello d’una prigione, quella che trattenne recluso, per ben 25 anni, Nelson Mandela. Siamo in Sudafrica, in pieno apartheid e il film è tratto dal libro autobiografico: ”Nelson Mandela, da nemico a fratello” scritto da James Gregory, il secondino preposto alla sorveglianza di questo prigioniero eccellente di cui doveva spiare ogni mossa. Accadrà l’impensabile; le idee e il fascino che emanavano da quest’uomo straordinario finiranno per sedurre l’omuncolo razzista addetto alla sorveglianza, a indurlo a cambiare radicalmente la sua ottusa mentalità e a passare, non senza rischi per la sua stessa vita, dalla parte del “nemico”. Bill August, il regista, con semplicità e con immagini prive di retorica, traduce in denuncia inequivocabile, trenta lunghissimi anni di lotta per la riconquista dei diritti civili. Non vediamo sulla scena elefanti, ippopotami, tigri e giraffe, sentiamo solo l’afa che toglie il respiro e il ronzio fastidioso delle zanzare. La scena si svolge quasi tutta in un interno, a tratti però il regista inquadra il cielo… solo un pezzetto di cielo che sembra annunciare speranza e dove i colori del tramonto alla fine, sfumeranno pian piano verso una sola tonalità, un rosa tenero, sereno e sognante: il colore della libertà!
Dal lontano Sudafrica decolliamo alla volta dell’Italia. Il nostro aereo è piccolo e leggero dunque ci consente di atterrare in un piccolo spazio , una terrazza con vista sui tetti di Roma, ma non una terrazza qualunque, “La terrazza” di Ettore Scola, un regista che “abbiamo tanto amato”. Ci invitano a cena Mastroianni, Gassman, Tognazzi che, per niente sorpresi del nostro arrivo continuano a conversare. Ascoltiamo in silenzio. Poche battute argute, sagaci ma profondamente amare ci spiegano “come sia finita un’epoca e come abbia trascinato con sé valori, ideali che sembravano eterni e con essi anche la voglia di ridere dei nostri difetti, l’ironia che ci aveva fatti risorgere dal fascismo” e sopravvivere alle menzogne della prima repubblica e di come la sinistra sia diventata un aggettivo qualunque ed abbia, oggi potremmo solo aggiungere, dato una mano, la sinistra appunto, per contribuire a umiliare, ad offendere, in una parola, a distruggere quel po’ che rimane della nostra “Grande Bellezza”.
Ma perché flagellarci?! Ogni Paese può vantare vizi e virtù, miseria e nobiltà, cultura e natura ricchezza e povertà. Insomma, ammettiamolo, c’è la politica e c’è l’economia e bisogna farsene una ragione... in breve: c’è la realtà e poi ci sono i sogni, sì i sogni, i nostri e anche quelli di Giulio…
Giulio Regeni cui questo modesto scritto è idealmente dedicato
Palermo 26 febbraio 2016
Jolanda Elettra Di Stefano
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