"VOLEVO NASCONDERMI" - Regia di Giorgio Diritti- Premio Davide di Donatello 2021


Arte e follia, genio e sregolatezza, binomio facile, luoghi comuni cui la ragione umana ricorre per chiarire a se stessa quei fenomeni che non riesce a  spiegare. La creatività, la più affascinante, ma anche la più misteriosa tra le potenzialità della psiche, probabilmente è insita, in misura maggiore o minore, nel DNA degli esseri umani, ma non sempre, la storia e la storia dell'arte lo dimostrano, non sempre le garantiamo il giusto spazio per manifestarsi, esplodere dove e come vuole, là dove  appare, spontaneamente, in forme che nulla hanno a che vedere con le regole codificate dalle accademie e dagli iter didattici d'ogni ordine e grado. Mai, si può dire a tutt'oggi, è stata presa in seria considerazione tale innata attitudine mentale. Essa fa solo capolino nelle griglie di valutazione, come un dettaglio per  assegnare un punto in più  ad un  alunno meritevole,  e spesso neanche quello. Non parliamo poi dello studio della "Storia dell'Arte", solo un'ora settimanale, l' "ora d'aria", quasi una gentile concessione! L'Italia, la patria di Giotto, Raffaello, Michelangelo, Donatello, Leonardo, non contempla ancora, alcuna riforma al riguardo. Qualche spiraglio però si intravede, forse dettato dai lunghi mesi di clausura pandemica, ma ben venga! Nel corso della cerimonia per la consegna dei "Davide di Donatello", il più prestigioso dei premi cinematografici italiani, Pier Francesco Favino, attore amato e apprezzato in tutto il mondo, ha fatto un appello, che sottoscrivo, in favore dell'inserimento dello studio dell'Arte cinematografica, in tutte le scuole; si badi bene -  in ore curriculari - ha precisato! Ci auguriamo vivamente  che tale accorato appello non cada nel vuoto!  Nel corso della stessa cerimonia poi,  il primo premio è stato assegnato a "Volevo nascondermi", film dedicato alla figura controversa e complessa di Antonio Ligabue, pittore che stentò non poco a farsi  accettare come uomo e come artista, dati i suoi trascorsi di bambino "caratteriale" e di adolescente nevrotico cui , nelle strutture, dove fu spesso tenuto in osservazione, non si sentì mai né accolto, né curato come sperava.
Non è certo la patologia di carattere psichiatrico, e  ancor meno la sregolatezza che può spiegare la genesi dell'arte, bensì, come costante, una profonda sensibilità, un'intelligenza non comune, una curiosità e un interesse che inducono a trascendere il sensibile e a indagarne l'essenza . Certo anche un dolore, un trauma e talvolta un'infanzia difficile,  segnata dalla ferita dell'abbandono, dagli stenti, dalla povertà,  come nel caso di  Antonio Ligabue,  il soggetto del film: "Volevo nascondermi".  Nacque a Zurigo, da madre italiana, una donna che lavorava come operaia in Svizzera, Maria Elisabetta Costa, e fu registrato come Antonio Costa, lo stesso nome della madre che, costretta dall'indigenza, a solo nove mesi, lo diede in adozione a una coppia di anziani coniugi senza figli. Con la madre il piccolo Antonio svilupperà un legame molto forte, quasi morboso, ma col padre, uomo duro, irascibile e dedito all'alcool, il rapporto non sarà mai felice e certo questa è da annoverare  tra le cause di quella depressione, di quegli alti e bassi di umore che lo porteranno a ricoveri frequenti nelle cosiddette "Case di cura" dalle quali, il piccolo Antonio desiderava solo  fuggire.
Una vita difficile dunque: mai compreso, mai incoraggiato, mai percepito nel suo malessere derivante da una nevrosi infantile che lui stesso cercava maldestramente di superare, chiudendosi agli altri o sfoderando verso di essi un'aggressività che spesso, purtroppo degenerava nella violenza. Il maestro delle scuole elementari lo dichiarò "debole di comprendonio" e lo spedì nelle classi differenziali. Liquidò così un ragazzo sì problematico, ma di cui non capì nulla e per il quale, pensava, non valesse la pena sprecare il suo tempo. Tale soluzione non fece che esasperare nel piccolo Antonio, quel dramma interiore che lo vedrà più volte ricoverato presso gli ospedali psichiatrici, dove però almeno i medici notarono e certificarono la sua spiccata tendenza verso il disegno, la pittura, la scultura  e certificarono quanto tali attitudini innate costituissero una insostituibile, oltremodo efficace, valvola di scarico  per lui e contribuissero a  fargli superare le crisi più preoccupanti cui spesso andava soggetto, nel corso di questo lento, ma non impossibile, iter di guarigione. Emarginato ed escluso, mai opportunamente curato, trovò da se stesso la via per sfuggire al demone che lo tormentava dentro. Amava la natura; verso gli animali provava una tenerezza speciale e poterli raffigurare e sfogare, attraverso di loro,   la sua pena di vivere, sarà la sua salvezza!
Ed è proprio questo percorso verso la guarigione che il film segue, senza addentrarsi troppo nei meandri di questa biografia dolorosa, ma lasciandoli solo intuire e trasparire da ciò che pian piano guidava la mano dell'artista e il suo annullarsi nel processo creativo. Scenografia e fotografia sono complici nel tradurre in immagini tutto quel senso di angoscia e di solitudine che presiedono, anzi  in gran parte costituiscono, la genesi dell'arte di Ligabue.  Ne viene fuori il ritratto di un uomo debole, perché di salute malferma,  che la vita stessa aveva collocato ai margini, appena nato, ma soprattutto emerge  il volto dolente di una creatura, vittima di una società, che non si sforzò minimamente di andargli incontro.
Elio Germano, l'attore protagonista, bravissimo, meritatamente premiato per questo ruolo, sia al Festival  di Berlino con un "Orso d'argento " che in Italia col "Davide", in questo film, non interpreta, non fa suo il personaggio, piuttosto si "nasconde" nei panni di quest'ultimo, si fa simbolo egli stesso, di quell'umana sofferenza che ha il volto di Ligabue, ma vuole essere emblema e specchio di una società sorda, cinica che vede nel malato di mente solo una piaga, un contatto da rimuovere. 
Il contesto  storico-politico in cui l'artista si trovò a vivere, non certo gli fu di grande aiuto, anzi gli creò ulteriori problemi. Il Fascismo, con tutto il suo carico di tronfia vitalità, tendeva ad escludere i deboli, i malati, i non adatti alla guerra, i non sposati , ai quali  imponeva la tassa sul celibato che Ligabue, per esempio, non poteva permettersi di pagare. Tutte queste categorie erano percepite come un peso dal regime fascista; la guerra e la povertà che ne conseguì fecero il resto per affossarle. 
I colori delle scene nel film riflettono e ricreano  il grigiore di quell'epoca  non hanno mai toni solari; sono in perfetta sintonia con il mondo che il regista intende ricostruire, così pure con gli alti e bassi di quell'anima tormentata  su cui  si vuol far luce.
Il regista, Giorgio Diritti, in una tra le più significative delle sue opere precedenti: "L'uomo che verrà" aveva già raccontato una tragica pagina della nostra storia: la strage di Marzabotto, osservata con gli occhi di una bambina, sicché la dominante cromatica era un bleu pervasivo che dava alle scene la connotazione del sogno, del ricordo e attenuava, senza banalmente addolcirle, la drammaticità delle vicende narrate. Qui invece Diritti va più a fondo nella sua ricerca espressiva; qui l'atmosfera e le nuance dei colori hanno toni decisamente espressionistici. In "Volevo nascondermi"  il regista si nega anche il facile ricorso alla tecnica dei "tableau vivants", la più ovvia quando si tratta di vite di pittori,  e restituisce a un"incompreso" quella dignità e quel valore che sono della persona, prima ancora che dell'artista! 
                           (Jolanda Elettra Di Stefano)

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