“Un destino migliore” (2024), regia di Gaetano Di Lorenzo
Lo Zen
(Zona di espansione Nord), progettato per la città di Palermo da architetti di
chiara fama, doveva essere l’isola
felice che avrebbe accolto tutti gli aspiranti ad un alloggio popolare, in gran
parte sfrattati dai palazzi fatiscenti del centro storico o provenienti dalle
campagne dell’entroterra ormai sterili e improduttive. Il progetto prevedeva
zone verdi, giardini, campetti di calcio, aree attrezzate per i giochi dei bambini, spazi per praticare
sport all’aria aperta, luoghi di ritrovo
e di aggregazione dove favorire scambi, incontri tra i residenti, dove
far crescere adolescenti privi di tutto e giustamente desiderosi di vivere una
vita degna di essere vissuta. Niente di tutto questo è stato poi realizzato, né
si intravede all’orizzonte una benché minima volontà politica di intervenire e
sanare un ritardo ormai irrimediabilmente cronico. Incuria, degrado, sporcizia,
mancanza di strutture adeguate ai bisogni di coloro che lo abitano, hanno
stravolto le ottime intenzioni dei progettisti ed oggi il quartiere
versa nel più totale abbandono sicché anche
la criminalità, più o meno organizzata, vi si è radicata avendo
trovato terreno fertile dove attingere
manovalanza facile da reclutare e
sottomettere. Gaetano Di Lorenzo, giovane regista palermitano, dopo una lunga
carriera di documentarista, avvalendosi della casa di produzione "Movie Factory" di Francesco Montini, ha scelto di zoommare su questa realtà, di far conoscere questa fascia
di cittadini ghettizzata dall’amministrazione “distratta” di una città che però da queste sacche di miseria non può prescindere, se veramente vuole
rinascere e liberarsi da quel marchio infamante che ne ha fatto il simbolo di
“Cosa Nostra” come la definì Giovanni Falcone, il giudice da essa barbaramente
assassinato!
Con uno stile sobrio, essenziale,
di chi ha ben assorbito la lezione dei grandi maestri del “Neorealismo
italiano”, senza enfatizzare, ma anche senza nascondere gli aspetti più crudi
di questo orribile contesto, il regista documenta, osservando
con sincera partecipazione, mosso, com’ è, da una lucida volontà di denuncia e motivato
da un rigoroso impegno civile. Si dipana così dinanzi ai nostri occhi la storia
e la vita di Giovanni Catalano, un ragazzo costretto a lasciare la scuola, perché, in quanto corresponsabile di una
rapina, è stato arrestato. Potrebbe
essere una delle tante storie di
ordinaria delinquenza di cui quotidianamente ci parlano i giornali, ma
diventerà emblematica di un riscatto, di
una volontà di cambiamento che si
realizzerà grazie all’intervento di una donna capace di incidere con la sua determinazione. Dotata di
quell’energia morale che va oltre il coraggio, Luisa (Stefania Blandeburgo), si
avvale inoltre di una materna propensione per l’altro ed è profondamente
ancorata a quei principi che dovrebbero ispirare tutti i docenti degni di
questo nome. La prof., temeraria protagonista del racconto ispirato a fatti
realmente accaduti, pur di strappare il ragazzo dagli artigli della malavita,
non esita, non appena saprà che Giovanni ha ottenuto di potere scontare la pena
ai domiciliari, ad andare a fargli lezione a casa sì da consentirgli di non
rimanere indietro negli studi e proseguire di pari passo coi coetanei. Non sarà
facile, la lunga esperienza di Luisa, con ragazzi caratteriali e disadattati,
non le facilita affatto il compito: Giovanni vede in lei nient’altro che un
tassello di quel sistema, di quella cosiddetta società civile da cui si sente
rinnegato, escluso. Egli scaricherà dunque, paradossalmente contro di lei, in
una delle scene più drammatiche e , al contempo, più significative del film, quell’odio verso quel mondo che la
prof. incarna, suo malgrado, e nei confronti del quale Giovanni vuole essere
carnefice, non vittima! In linea con l’educazione che il padre, uomo “di rispetto”
del quartiere, gli ha inculcato, si appresta a seguirne le orme. L’agguato teso
al suo migliore amico, aggredito, dinanzi ai suoi occhi, lo carica altresì di un desiderio
insopprimibile di vendetta. L’arma che maneggia con grande disinvoltura glielo
consentirà. La scena in cui punta la pistola
contro la professoressa evidenzia tragicamente quanto sia orgoglioso di
quel potere che solo l’arma gli garantisce. Sin da bambino gli è stato
insegnato che la violenza è irrinunciabile, per non soccombere a un destino di
perdenti. Il padre è in carcere per aver commesso un omicidio e Giovanni, pur
sentendo il desiderio di dare una svolta alla sua vita, non riesce a staccarsi
da quelle frequentazioni dalle quali pensa di potere avere protezione e
sicurezza. Cosa gli offre quel mondo dorato di ville sorte nelle immediate
vicinanze di casa sua, se non
emarginazione e disprezzo? Giovanni, sin
da bambino, come si evince da un flash-back, appare rassegnato all’idea che
forse non arriverà ad “essere grande”, a crescere! E’ la battuta tra le più
emblematiche del film e rivela lo
sguardo del regista che non vuole essere
giudicante. Anzi Di Lorenzo demolisce ogni alone di cupa grandezza della mafia,
quale quello cui tanto cinema ci ha abituati e adotta un punto di vista, in
questo caso soprattutto femminile, per condannare l’orrore della mala vita e contrastarne il
potere devastante. Il regista racconta questa micro-storia di ordinaria
delinquenza nella quale miracolosamente interviene e riesce a dare una svolta
alle cose, la volontà caparbia di una “volontaria” che agisce da ponte tra due
mondi inconciliabili; Luisa salta oltre la siepe e, non curante del pericolo,
getta su di un terreno apparentemente
arido il seme, non della
speranza, ma del diritto ad acquisirla e
fare il primo passo verso un futuro simile a quello che tutti sognano.
Accanto al protagonista Matteo
Aluia, contribuisce a dare all’opera una
connotazione profondamente umana, un corollario di personaggi secondari e
comparse che fanno aderire lo spettatore
alle tragiche vicende narrate, e gli inducono un’empatia che il tema trattato
spesso fa escludere a priori: abbandoniamo il nostro scetticismo, e ci sentiamo
partecipi della disperazione di una madre (Giuditta Perriera) che implora il
figlio perché abbandoni quella strada
che ha già portato alla rovina la famiglia e causato a tutti loro tanto
dolore…).E’ dunque da questo fattore umano, troppo spesso sottovalutato, che
bisogna partire per sovvertire dalle fondamenta una società che ammette
diseguaglianze e ingiustizie tali da scatenare reazioni spesso violente e
intollerabili. Luisa, la professoressa in questione non è per niente
supportata, per esempio, né dai colleghi, né
dalla figlia Patrizia (Miriam Fricano)
che non trova di meglio che suggerirle
di demordere dal suo, sia pur nobile intento, e la supplica di fuggire al Nord, lontano da una Palermo, abbietta e incapace di cambiamento! Di gran
lunga più consapevole e matura si rivela invece la nipote di Luisa: Emma
(Giulia Fragiglio), ragazzina sensibile, aperta , che invece incoraggia la
zia a insistere e portare a termine la
sua “ missione”. Patrizia ed Emma sono
le facce di una medaglia che rende l’idea di quanta strada ci sia ancora da fare per seppellire un passato
lugubre che pesa come un macigno su questo “borgo selvaggio” che solo i suoi
figli migliori: registi, attori, insegnanti, artisti, intellettuali ,
scrittori, giornalisti e volontari anonimi
mostrano di sapere e poter
redimere. La regia di Di Lorenzo, infatti, scrupolosa e da sempre
attenta a queste problematiche, con “Un
destino migliore” ha saputo restituire
alla nostra Palermo dignità e voglia di
futuro. La fotografia di Gabriele De Palo, assumendone il colore e il calore, mediante suggestive
riprese notturne, le ha restituito la sua millenaria grande bellezza; Il
montaggio di Pietro Vaglica crea da un contesto complesso e privo di appeal un tutt’uno armonico di cui si coglie l’essenza
e insieme il valore etico e
politico di tutta l’opera!
Jolanda Elettra Di Stefano
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