"Lirica Ucraina" (2024), regia di Francesca Mannocchi
Quanta strada deve fare un gabbiano prima di potersi riposare
sulla sabbia?...Parole suggestive, versi incantevoli del leggendario
menestrello del Minnesota, quante? Ancora tante, forse infinite, se continua a scorrere sangue in più parti
della terra e quotidianamente si consumano innumerevoli stragi di innocenti,
dinanzi all’indifferenza e all’impotenza colpevole del resto del mondo! “Una canzone, una
canzone può fare tanto! - diceva Woody Goothrie al ragazzino che lo commuoveva
suonandogli: “Song for Woody”. Una canzone, un pensiero, un film, un’opera d’arte come questa che ci accingiamo
a far conoscere, può scuotere l’umanità dal suo torpore, offrire uno spiraglio,
una luce, come riesce a fare questo sguardo tutto “femminile” verso quella
terra martoriata che è l’Ucraina, un paese che attende da troppo tempo che
tacciano le armi e si instauri un sereno dialogo tra le parti belligeranti.
Francesca Mannocchi, giornalista prima che regista di “Lirica
Ucraina”, premiata in Italia, col “Davide di Donatello” per il miglior
documentario dell’anno 2025, colma un vuoto che aspettava da tempo di essere
degnamente riempito.”Lirica Ucraina”, il titolo è già emblematico dei
presupposti e delle finalità dell’opera che non intende turbarci con la
pornografia dell’orrore –questa missione è egregiamente svolta dai TG di tutto
il mondo e dalla miriade di informazioni
che girano vorticosamente su tutti i social network senza lasciare
neanche il tempo di pensare!- Francesca commuove con la dolorosa poesia
delle immagini, che vanno dritte al cuore, ferendolo in maniera indelebile, a
partire dalla prima scena nella quale appare un bimbo che, con fare rassegnato
e sereno, si aggira tra le rovine che una bomba, appena esplosa, ha creato nel
suo quartiere; poi guarda verso di noi e ci mostra un pezzo di quell’ordigno
micidiale che ha distrutto e sventrato un intero edificio. Non c’è nulla da
aggiungere al suo racconto, le immagini parlano da sé: macerie su macerie sulle
quali sventola, quasi fosse una bandiera, una tenda bianca ancora appesa a un
muro fatiscente. Un ricordo effimero di
una vita dignitosa, di una città dal volto ancora umano, oggi cancellata dalla
crudeltà dell’esercito aggressore. Il racconto del bambino si conclude con
parole agghiaccianti: “Hanno bombardato anche l’ospedale e questo mi dispiace”!
Come immagine speculare a quella del bimbo che con tanta semplicità ci mostra
l’orrore di cui è stato testimone, segue quella di un’anziana donna che afferma
di non conoscere tregua nella storia della ferocia umana di cui è vittima. E’
nata con la guerra e con essa a tutt’oggi convive, nutrendosi di dolore e
rassegnazione. Le fanno compagnia le foto alle pareti di momenti felici che la solitudine e la disperazione rendono
ancor più struggenti. Poi la telecamera torna all’esterno, zumma sui crateri
creati dalle bombe. Una tristissima gamma di colori invade lo schermo: grigio,
marrone, nero, sono realtà e metafora della caparbia volontà di sterminio che
non fa intravedere il più pallido indizio di tregua.
Qua e là, tra i palazzi sventrati, qualche sprazzo di verde,
un lieve segno di speranza, come quell’albero che si erge in mezzo a un cumulo
di macerie, inquadrato dall’interno di una casa completamente rasa al suolo, ma
di cui rimane l’intelaiatura della porta che dava nel patio, e fa da cornice a questo sia pur malinconico
barlume di vita! Che ricomincia altrove. Dopo aver perso tutto, si fugge dove
si può, coi bambini in braccio e i vecchi sulle spalle, un corteo dolente che
non trasmette odio, ma indica, in tanta desolazione, il punto da cui ripartire:
la guerra può distruggere tutto ma non l’umano che è nell’uomo.
Una voce grida. Di chi è questa bambina? Qualcuno corre, le
va incontro, l’aiuta a trovare i genitori, chissà se vivi, i suoi cari, o quel
che resta di una famiglia forse annientata da quella violenza cieca e determinata ad abbattere tutto ciò che la
ostacola.
Neonati gravemente feriti vengono consegnati alle ambulanze,
salvarli attiene a un miracolo, non alla scienza umana, un miracolo come quello
in cui si spera che possa ancora accadere quando si sente il pianto di un bimbo
che giace sotto le macerie; in tanti, tutti, corrono verso di lui seguendo
quella flebile voce che implora aiuto!
“Pace!, Pace! E’ il grido unanime della folla esausta e inorridita : “La nostra Ucraina, la terra in
cui sono nata è stanca di dolore e di morte, chiede solo ciò che è suo”!
risponde un’eco di silenzio, immagini spettrali, corpi abbandonati, case
devastate, delle quali rimane solo un brandello di muro e, per ironia della
sorte, anzi per sarcasmo di un destino crudele, appare su quell’ultima porzione di parete,
rimasta in piedi, una poltrona, intatta, parla per gli assenti e sembra
chiedere perchè ?!
Vedete” -dicono ai giornalisti un gruppo di sopravvissuti-
vedete, come bestie hanno sparato sui passanti, sulle bici, sulle macchine …ma…
ora siamo qui, siamo vivi, lo capite? Vivi!!! E una gioia incontenibile che
cercano di trasmettere a chi potrà a sua volta raccontarlo. La scena si fa dunque meno cupa, l’atmosfera
serena: c’è una pentola che fuma; la vita ricomincia, un pallido sole
illumina chiazze di campi verdi, ma gelido è il lago e fioca la speranza.
Ancora un grido di dolore: una donna piange la morte del marito e dei suoi
figli colpiti durante la disperata corsa in macchina per salvare il padre
ferito. Un uomo racconta di torture subite duranQuanta strada deve fare un
gabbiano prima di potersi riposare sulla sabbia?...Parole suggestive, versi
incantevoli del leggendario menestrello del Minnesota, quante? Ancora tante,
forse infinite, se continua a scorrere
sangue in più parti della terra e quotidianamente si consumano innumerevoli
stragi di innocenti, dinanzi all’indifferenza e all’impotenza colpevole del resto del mondo! “Una canzone , una
canzone può fare tanto! - diceva Woody Goothrie al ragazzino che lo commuoveva
suonandogli: “Song for Woody”. Una canzone, un pensiero, un film, un’opera d’arte come questa che ci accingiamo
a far conoscere, può scuotere l’umanità dal suo torpore, offrire uno spiraglio,
una luce, come riesce a fare questo sguardo tutto “femminile” verso quella
terra martoriata che è l’Ucraina, un paese che attende da troppo tempo che
tacciano le armi e si instauri un sereno dialogo tra le parti belligeranti.
Francesca Mannocchi, giornalista prima che regista di “Lirica
Ucraina”, premiata in Italia, col “Davide di Donatello” per il miglior
documentario dell’anno 2025, colma un vuoto che aspettava da tempo di essere
degnamente riempito.”Lirica Ucraina”, il titolo è già emblematico dei
presupposti e delle finalità dell’opera che non intende turbarci con la
pornografia dell’orrore –questa missione è egregiamente svolta dai TG di tutto
il mondo e dalla miriade di informazioni
che girano vorticosamente su tutti i social network senza lasciare
neanche il tempo di pensare!- Francesca commuove con la dolorosa poesia
delle immagini, che vanno dritte al cuore, ferendolo in maniera indelebile, a
partire dalla prima scena nella quale appare un bimbo che, con fare rassegnato
e sereno, si aggira tra le rovine che una bomba, appena esplosa, ha creato nel
suo quartiere; poi guarda verso di noi e ci mostra un pezzo di quell’ordigno
micidiale che ha distrutto e sventrato un intero edificio. Non c’è nulla da
aggiungere al suo racconto, le immagini parlano da sé: macerie su macerie sulle
quali sventola, quasi fosse una bandiera, una tenda bianca ancora appesa a un
muro fatiscente. Un ricordo effimero di
una vita dignitosa, di una città dal volto ancora umano, oggi cancellata dalla
crudeltà dell’esercito aggressore. Il racconto del bambino si conclude con
parole agghiaccianti: “Hanno bombardato anche l’ospedale e questo mi dispiace”!
Come immagine speculare a quella del bimbo che con tanta semplicità ci mostra
l’orrore di cui è stato testimone, segue quella di un’anziana donna che afferma
di non conoscere tregua nella storia della ferocia umana di cui è vittima. E’
nata con la guerra e con essa a tutt’oggi convive, nutrendosi di dolore e
rassegnazione. Le fanno compagnia le foto alle pareti di momenti felici che la solitudine e la disperazione rendono
ancor più struggenti. Poi la telecamera torna all’esterno, zumma sui crateri
creati dalle bombe. Una tristissima gamma di colori invade lo schermo: grigio,
marrone, nero, sono realtà e metafora della caparbia volontà di sterminio che
non fa intravedere il più pallido indizio di tregua.
Qua e là, tra i palazzi sventrati, qualche sprazzo di verde,
un lieve segno di speranza, come quell’albero che si erge in mezzo a un cumulo
di macerie, inquadrato dall’interno di una casa completamente rasa al suolo, ma
di cui rimane l’intelaiatura della porta che dava nel patio, e fa da cornice a questo sia pur malinconico
barlume di vita! Che ricomincia altrove. Dopo aver perso tutto, si fugge dove
si può, coi bambini in braccio e i vecchi sulle spalle, un corteo dolente che
non trasmette odio, ma indica, in tanta desolazione, il punto da cui ripartire:
la guerra può distruggere tutto ma non l’umano che è nell’uomo.
Una voce grida. Di chi è questa bambina? Qualcuno corre, le
va incontro, l’aiuta a trovare i genitori, chissà se vivi, i suoi cari, o quel
che resta di una famiglia forse annientata da quella violenza cieca e determinata ad abbattere tutto ciò che la
ostacola.
Neonati gravemente feriti vengono consegnati alle ambulanze,
salvarli attiene a un miracolo, non alla scienza umana, un miracolo come quello
in cui si spera che possa ancora accadere quando si sente il pianto di un bimbo
che giace sotto le macerie; in tanti, tutti, corrono verso di lui seguendo
quella flebile voce che implora aiuto!
“Pace!, Pace! E’ il grido unanime della folla esausta e inorridita : “La nostra Ucraina, la terra in
cui sono nata è stanca di dolore e di morte, chiede solo ciò che è suo”!
risponde un’eco di silenzio, immagini spettrali, corpi abbandonati, case
devastate, delle quali rimane solo un brandello di muro e, per ironia della
sorte, anzi per sarcasmo di un destino crudele,
appare su quell’ultima porzione di parete, rimasta in piedi, una
poltrona, intatta, parla per gli assenti e sembra chiedere perchè ?!
Vedete” -dicono ai giornalisti un gruppo di sopravvissuti-
vedete, come bestie hanno sparato sui passanti, sulle bici, sulle macchine …ma…
ora siamo qui, siamo vivi, lo capite? Vivi!!! E una gioia incontenibile che
cercano di trasmettere a chi potrà a sua volta raccontarlo. La scena si fa dunque meno cupa, l’atmosfera
serena: c’è una pentola che fuma; la vita ricomincia, un pallido sole
illumina chiazze di campi verdi, ma gelido è il lago e fioca la speranza.
Ancora un grido di dolore: una donna piange la morte del marito e dei suoi
figli colpiti durante la disperata corsa in macchina per salvare il padre
ferito. Un uomo racconta di torture subite durante la prigionia, ma ora è
salvo, libero e trova la forza di sorridere.
Dai campi ancora innevati, timidamente fanno capolino piccoli fiori;
qualche spiga si offre alla carezza del vento. Sulle casupole dalle porte
serrate dalla paura e dall’abbandono si adagiano morbide nuvole, i girasoli
suggellano un disperato anelito di pace!
Jolanda Elettra Di Stefano
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