La zona d'interesse (2023) - regia di Jonathan Glazer

Terminata la prima guerra mondiale, la Germania sconfitta risorge, non senza difficoltà, ma alacremente, in tutti i campi, compresa la scienza, la tecnica e l’arte; in quest’ambito e nell’architettura in particolare, acquista un ruolo di primo piano che avrà nella scuola  del ”Bauhaus”, la sua consacrazione. La dirige l’architetto Walter Gropius e vi insegnano artisti come Paul Klee, Wilehlm  Kandiskji, Mies Van De Rohes, i quali portano avanti il cammino tracciato dall’inglese William Morris, maestro di quell’arte nuova, frutto degli apporti congiunti di più espressioni artistiche e attività artigianali. Non si intendeva più progettare  per un’ élite, ma si voleva andare incontro alle esigenze di tutti, produrre adottando linee semplici sia per gli edifici, che per i mobili e gli oggetti di arredo o di uso quotidiano. Il sogno durò appena 15 anni; Hitler, appena asceso al potere, chiuse la Bauhaus, perché l’architettura del movimento moderno, ritenuta d’origine orientale, era lontana anni luce dalla sua visione del mondo. Gli architetti, quasi tutti ebrei, per altro, furono costretti a emigrare. Non è che l’inizio degli anni più bui, non solo per la Germania ma per l’Europa tutta.

 Il film di Jonathan Glazer: “Zona d’ interesse”  ne è un’ennesima lucida, originalissima testimonianza. Con immagini potenti, nella loro gelida essenzialità, con una ricerca espressiva inedita, attraverso l’uso di un sonoro che rende vivo e tangibile l’orrore che denuncia, scuote la coscienza dello spettatore, lo inchioda alla responsabilità nei confronti non solo del passato, da conoscere e non dimenticare, ma ancor più dell’oggi e di quel domani che si potrebbe replicare  identico, se ci lasciamo accecare dall’indifferenza! Nessun elemento della scena è superfluo, essa si avvale di un gioco di linee e soluzioni geometriche che alludono certo al gusto dell’epoca, ma qui costituiscono la fredda cornice della way of life  di quella fetta  della società che aveva venduto l’anima al diavolo in cambio di una vita disumana e felice!  Rudolph e Hedwige Hoss, i protagonisti del film come della “Storia”,  hanno realizzato il loro sogno da quando, adolescenti, si erano fidanzati: una famiglia numerosa, una bella villetta con parco-giardino intorno, con tanto spazio per ospitare anche una piscina, pergole e gazebi per fruire dell’ombra nei momenti di relax, un bell’orto da cui ricavare ottime e  genuine verdure, un florido vigneto e poi immancabilmente fiori, fiori di tutti i colori e di tutte le specie per deliziare gli occhi e accogliere degnamente gli ospiti, tutta gente di rango, graditi al fuhrer e all’establishment che regnava tragicamente sovrano, nella Germania degli anni ’40 dello scorso secolo. La villetta che gli scenografi hanno ricostruito identica a quella dove visse  realmente l’alto ufficiale delle SS con la famiglia  crea un armonico contrasto   col verde degli alberi e i colori del parco; i balconi che interrompono la monotonia delle pareti esterne ne fanno una ridente dimora, ma anche lo spettatore più distratto coglie l’ossimoro,  perché  Lukasz Zal, geniale fotografo (che abbiamo avuto modo di apprezzare in un’opera unica nel suo genere, “Loving Vincent”), la illumina di una luce che lungi dal sottolinearne il fascino,  rivela soprattutto,  il gelo che essa vuole significare.  Sul bianco immacolato della villetta, incombono, creando un effetto di atroce contrasto, il mattone rosso dei lager e i camini fumanti che bruciano a ripetizione corpi umani, quelli degli ebrei prigionieri ad Auschwitz; Rudolph Hoss ne era il comandante! E a lui si deve la perfetta organizzazione di questa macchina della morte il cui cancello d’ingresso ostentava sul frontespizio una promessa di lavoro e libertà. Rudolph Ross:  perfetto emblema di quel ceto medio, ignorante e conservatore che costituì  la sacca elettorale in cui pescò il Nazionalsocialismo, quel partito che però, una volta asceso al potere, virò subito verso un’esplicita, concreta politica nazional-imperialista. Esso si affrettò infatti a escludere dal movimento ogni minimo riferimento al Socialismo e  assunse come obiettivo principe la guerra, la creazione della “Grande Germania” che avrebbe dovuto regnare “ὒber alles”. Ricordiamo che “ il ceto medio- sottolinea W. Reich, (psicoanalista e antropologo tedesco, ebreo, scampato all’olocausto perché fuggito in America) è lo strato che ha conservato per millenni il patriarcato, tenendolo vivo con tutte le sue contraddizioni” :  la carriera militare era il lavoro per eccellenza,  la divisa, che esagerava le forme del corpo rendendolo  ridicolo,  era indossata con orgoglio perché conferiva dignità a tanti signori-nessuno che tali sarebbero rimasti se la dittatura non ne avesse fatto i loro più fedeli sostenitori nonché i  destinatari più facili da indottrinare con le parole del filosofo del regime, Rosenberg :  “L ‘ebreo ha rovinato la nostra razza, ha fatto marcire la nostra forza, ha minato la nostra morale e ha spezzato le nostre energie… L’ebreo è il demone personificato della decadenza, l’ascesa e la decadenza dei popoli è da attribuire all’incrocio delle razze e all’avvelenamento del sangue, la sifilide ne è una lampante conseguenza; la peste mondiale ebrea ha contaminato il puro sangue ariano. Di conseguenza, auspicabile con tutti i mezzi la purezza della razza, cioè la purezza del sangue, inevitabile e giustificato il massacro di un intero popolo”! Da come evidenziato dal film, non solo il fine crudele giustificherebbe i mezzi, ma anche il cinismo degli abitanti della casa ubicata nella “zona d’ interesse”, quei 40 km che circondavano l’inferno voluto dalla barbarie nazista. Perfetta l’attrice Sandra Hὒller, in grembiale e pantofole come si addice a una brava donna di casa, l’ideale di donna del regime che la vuole madre di numerosa prole, obbediente e sottomessa alla volontà del patriarca. Passeggia con la neonata in braccio e le mostra i fiori che man mano sbocciano, le coccinelle, le farfalle, la inizia al bello che la natura crea, ma nessuna pietà  trova posto nel suo cuore, nessun rimorso, un briciolo di attenzione a quel rumore sinistro che proviene dall’altra parte del muro, quell’orribile suono di voci imploranti, straziate dal dolore di corpi in agonia e che il crepitio dei forni crematori placa in un unico assordante silenzio di morte. Basterebbe quest’unica scena come parte che rivela l’inesprimibile tutto, ma tanti ancora sono gli elementi scenici che ricostruiscono quella tragedia che, come ha sottolineato Glazer, il regista, stringendo in mano, commosso, il meritatissimo Oscar al miglior film straniero, vuole essere un monito  affinché non voltiamo le spalle al genocidio che è oggi sotto i nostri occhi.  Egli, lungi dallo spettacolizzare il male, ha fatto ricorso spesso a  metafore  più  esaustive e  inquietanti di immagini esplicite; per esempio a un tratto lo schermo  si tinge tutto di rosso e il silenzio induce a riflettere: il passato chiede ancora  giustizia, il presente implora tolleranza e pace. Inedita ed emozionante la scena che ritrae una bambina, filmata in negativo, che  distribuisce  per i prigionieri, zucchero e mele, nascondendoli  in mezzo allo sterco e al fango accumolatosi lungo il muro su cui essi possono affacciarsi.  Si rimane ancora attoniti dinanzi al pensiero di come e perché sia stato possibile tutto questo?!   A noi, che cerchiamo increduli spiegazioni a tale assenza di umanità, offre qualche lume la saggezza  antica: per Eraclito, infatti, la vita consiste “nell’eterna lotta tra gli opposti, tra il bene e il male, tra l’uomo dunque e il suo doppio; la ragione deve però intervenire a  garantire l’equilibrio tra questi due poli. In tempi più recenti,  il concetto  viene poi ripreso da tanta letteratura e arte; il poeta Rimbaud lo sintetizza nell’affermazione “Io è un altro, il doppio mostruoso”;   Nietzsche lo approfondirà ulteriormente e infine  sarà chiarito dalla psicoanalisi, da Jung il quale afferma che “la catastrofe si spiega e si dissolve  solo se la si integra  soggettivamente come avviene nei sogni; quando l’immagine di un “Sogno” è impossibile e assurda essa veicola l’idea che si, ciò che accade è assurdo, ma al tempo stesso indica la strada”!  Perfettamente speculare a Edwige  nel film, dunque, la figura della madre di   lei, ospite per un “tranquillo weekend” che si rivelerà di insostenibile paura, fuggirà di notte, lasciando alla figlia solo un biglietto, forse addirittura di addio, che finirà gettato con sdegno tra le fiamme del camino perché non susciti un briciolo di compassione, una larva di rimorso che porti a rifiutare quello status raggiunto, cui per nulla al mondo si intende rinunciare;  esso vale di più di sei milioni di vite! Neanche il trasferimento del marito, uomo di fiducia di Hitler, apprezzato e poi premiato per la sua feroce efficienza, schioderà Edwige dalla dimora dei suoi sogni, ”il luogo -diceva- più sano e aprico dove far crescere i bambini”! Anche il sonoro ha un suo doppio nel film ed è la musica, scritta su  un foglietto di carta, accartocciato, trovato per caso tra la cenere di resti umani. Ci sono le  parole di una canzone e le note che l’accompagnano. Le ha scritte un prigioniero. Rinasce anche così la vita, poesia e musica riscattano quell’inferno che solo un muro separa dalla casa di chi lo ha creato e lo dirige. 

Regista controverso Glazer, oggetto però di eccessiva polemica, suscitata anche dalle parole pronunciate in occasione della cerimonia di consegna del premio Oscar, che condividiamo in pieno e riferiamo testualmente:“Il nostro film mostra dove porta la disumanizzazione nella sua forma estrema. Siamo qui come ebrei, persone che rifiutano il fatto che la loro ebraicità e l’Olocausto vengano strumentalizzati da un’occupazione che ha portato al conflitto così tante persone innocenti, pertanto dedico questa mia opera ad Alexandra Bistron- Kolodzjejczyk, la piccola temeraria  partigiana della Resistenza polacca contro l’invasione nazista, e alla memoria di Joseph  Wolph, vittima dell’olocausto, autore dello spartito per piano cui si fa cenno nel film. .

                                                                                          Jolanda Elettra Di Stefano

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