"Perfect days" - Regia di Wim
Wenders
La prima volta che, nella storia dell’arte figurativa, appare
un cesso, più precisamente un orinatoio,
è stata nel 1916; lo propose
Duchamp ad una mostra firmandolo
con un nome di fantasia; lo estrasse dal suo luogo naturale e gli conferì
dignità di oggetto d’arte, sì da veicolare la tesi secondo cui a determinare il valore estetico di un
manufatto non è il lavoro che c’è voluto
per crearlo, ma una pura operazione mentale che a sua volta determina un
giudizio, una valutazione. Esponendolo
in tutta la sua sgradevole e banalissima forma, ne fece il simbolo di una
rivoluzione, quella dadaista” ( Zurigo-1916) che propugnava la libertà come
valore supremo da cui far scaturire un’arte “gioco”, libera da ogni
condizionamento e da ogni legge prestabilita, tecnica o mezzi preordinati e
canonici. L’artista deve lasciarsi dominare dalla casualità e mostrare della
realtà anche i suoi aspetti più prosaici, ma non per questo -sosteneva- meno
meritevoli di attenzione e considerazione.
Un altro artista che non si farà
scrupolo di mostrare i sanitari, sarà il
regista L. Visconti. Una delle scene più inquietanti del “Gattopardo” è
infatti quella in cui fa una lunga,
lenta panoramica su vasi da notte e “cantari” predisposti alla bisogna nella
stanza adiacente al salone del lussuoso
palazzo in cui si svolge il Ballo. Il film sta per finire e il principe, stanco
e nauseato, si avvia verso l’uscita. Anche in questo caso
i cessi, stracolmi e maleodoranti, sono la metafora più esplicita dell’intento
dell’autore che con essa intese significare il tramonto di un’epoca, l’agonia
di una classe sopravvissuta a se stessa che la storia stava per travolgere!
Altro esempio ce lo fornisce Peter Weir con il film: “Witness, il testimone”:
le prime scene si svolgono negli squallidissimi bagni di una stazione; non c’è
location migliore per un delitto! Sporcizia, fango e sangue sottolineano con maggiore efficacia,la crudeltà della
natura umana: di questa efferatezza sarà testimone involontario un bimbo di sei
anni!
Si potrebbe continuare all’infinito, ma bastano questi tre
esempi per condannare senza appello, questo nostro mondo, “cane” per
definizione. Accettiamo dunque come sfida, da Wim Wenders, regista nonché
filosofo e architetto “honoris causa”, questa sua opera, a dir poco
bizzarra perché altrimenti, dovremmo
fare nostra la lamentela del vicino di posto al cinema e chiederci perché mai
abbiamo lasciato il divano di casa in
una piovosa domenica di Gennaio. E La
sfida consiste nell’andare oltre ciò che vediamo. Non è certo la poetica del
cesso che il regista vuole sdoganare,
piuttosto il suo è un invito a riflettere sulle nostre esistenze violentate dal
troppo che coincide col nulla e indurci a
concentrarci su quello che la vita può ancora darci, su quella felicità
che non ci stanchiamo mai di cercare e che
ancora ci è dato cogliere se ci
liberiamo dalla zavorra del superfluo e ci accontentiamo
dell’essenziale, che è sì “invisibile agli occhi”, ma non per questo meno appagante.
Il primo tempo del film mostra infatti un umile impiegato della metropoli di Tokio che si guadagna da vivere pulendo le
toilettes dei parchi della città. Si alza la mattina, rimette a posto la stuoia
dove dorme, svolge le necessarie azioni quotidiane, scende in cortile, fa colazione con quello che
passa il governo attraverso le macchinette, sale in macchina e, ascoltando ,
mentre guida, la sua musica preferita, cullato dalle chitarre delle mitiche
band degli anni ’70, si avvia verso il suo luogo di lavoro. Lavora sodo con cura e professionalità,
pulisce quei cessi meticolosamente, come e più che se fossero quelli di casa
sua; quello è il suo lavoro, il suo luogo di lavoro, pertanto egli tiene a
mostrarsi inappuntabile e ineccepibile
anche nei confronti dei colleghi, dei fruitori del servizio e delle
persone tutte, in cui si imbatte per caso nel corso della giornata! Una lezione
di vita che non ci aspettavamo ci arriva dunque dalle toilettes del lontano Oriente e ci dimostra
quanta sia insulsa la nostra “way of life”, ci rendiamo così conto che noi
“Occidentali” abbiamo toccato il fondo,
che bisogna ripartire da zero, da quello che sembra zero, come fece Duchamp,
nel lontano 1916, e provare a ricostruire
anche la società con l’aiuto e i
suggerimenti di Tadao Ando, Toyo Ito,
Kengo Kuma, Masamiki Katayama, Kazoo Sato, Sou Fujimoto, tanto per citare i più
noti, insomma di tutta quell’intelligentia nipponica che ha realizzato il
”TokioToilet Art Project”, nobilitando quei luoghi, spesso maleodoranti e
impraticabili che, dalle nostre parti, frequentiamo solo in caso di assoluta necessità. Cominciamo a
osservarci nella nostra quotidianità, a partire dalla cura della nostra igiene
personale, dalle nostre abluzioni mattutine
e poi via, via, analizziamo i contesti nei quali viviamo e operiamo: rendiamoli vivibili, assumiamo lo sguardo di Hirayama; cominciamo dai luoghi di
lavoro, quelli dove l’uomo diventa gregge e, barattando la sua dignità per il
“quieto vivere”, a poco a poco, si
trasforma in ciò che il cesso è deputato
a contenere! Uffici, scuole, ospedali, banche, condomini, palestre sono
il correlativo oggetto dell’Inferno dantesco, senza il sarcasmo dantesco che
almeno lo colorava di rosso; l’ ironia poi, dolce musa di poeti ed artisti,
bandita, come fuori legge dalla cattiveria del mondo. Ma quale mondo? Quello
delle idee? Certo che no, piuttosto invece quello che il film ci incoraggia a costruire e che non è tanto lontano dall’utopia di cui
parlava Platone, è una qualche forma di ”Utopia sostenibile”. Se rileggiamo
Epicuro per es., ci accorgiamo che il pensiero occidentale, ripulito dalle
scorie ideologiche accumulatesi nei secoli, non è tanto lontano da quello
orientale, basti disporsi
all’integrazione” culturale, se proprio siamo restii a realizzare quella con gli stranieri; è il primo passo verso la
fratellanza dei popoli.
Epicureismo non è sinonimo di edonismo. La felicità è
riuscire ad essere al di sopra dei desideri, non perché dobbiamo sempre
accontentarci del poco, ma perché , se non abbiamo molto, il poco ci basti! Il
Cristianesimo ci esorta ad amare il
prossimo come noi stessi: entrambe le
tesi sono plausibili e forniscono le coordinate entro cui andrebbe iscritta una vita serena. Proviamo a non amare solo
quelli che amiamo –recita una preghiera
cattolica– ed è quello che ci suggerisce Hirayama, ma lo fa con l’esempio, ci insegna a trattare
anche il collega con un sorriso, con gentilezza, con discrezione. Se è più
giovane, puoi persino provare a operare
un miracolo: convertirlo alla tua musica! Da uno a dieci quanto valgono Van
Morrison, Patty Smith, Nina Simone, Lou Reed e band come gli Animals o i
“Velvet underground”, rispetto a un rappettaro qualunque? La loro musica
veicola messaggi profondi con parole semplici che hanno il
magico potere di arrivare a tutti. Se spingono alla commozione anche solo un
teen agers di oggi, qualcosa vorrà dire : c’è musica e rumore , alla prima va
il plauso di un Wenders che alla musica, una delle sue passioni, ha dedicato un
intero lungometraggio, deliziandoci con “Buena vista social club”. Le giornate
di Hirayama trascorrono dunque cullate
da dolci note e da armonie di suoni; a
noi non rimane che seguirlo, osservarlo seduto al parco, nei momenti di pausa,
consumare un frugale pasto, godendo
della meraviglia che il sole gli regala,
facendo capolino, tra le foglie degli alberi e anche noi ascoltiamo in
silenzio cosa hanno da dirci della loro vita vecchia e sempre nuova. La sera,
ripercorrendo le strade su cui incombono i
grattacieli avveniristici e le
megagalattiche sopraelevate di Tokio, la sua città, dove è attiva una delle
scuole di architettura più interessanti del mondo, Hirayama si ritira nella sua
che, a questo punto ci pare invidiabile
stamberga, poiché abbiamo radicalmente mutato il nostro sguardo sulle
cose. L’interno infatti, suggerisce quiete e calore, esso appare come l’esatta
proiezione dell’assunto di Loos: “Less
is more”. Una parete stracolma di libri e dischi, uno stereo anni ’70, un angolo verde dove
graziosissime piantine prosperano, fruendo solo della luce di una lampada e
grazie all’affettuosa cura del padrone di casa! E’ un altro indizio che ci
illumina sulla personalità di quest’ultimo, non sappiamo nulla infatti su di
lui: relazioni affettive, amici, famiglia? A un tratto sullo schermo, si
materializzerà una nipote con la quale questo zio insperabilmente ritrovato
instaurerà -o recupererà?- un rapporto che sembrava non potesse sussistere;
apparirà una sorella, sapremo di un
padre, vecchio e malato… Tutto rimane vago, indefinito, il silenzio è la
risposta più esauriente alla nostra insolente
curiosità che pure viene stimolata dal
fascino dell’interprete, ineccepibile in un ruolo indesiderabile che gli
ha già fruttato il premio come migliore attore protagonista a Cannes - 2023. Se
proprio vogliamo conoscere quest’uomo,
evitiamo di porci troppe domande e
zummiamo invece sull’autore che il nostro eroe legge avidamente, Faulkner e
quella sua poetica del non detto
che rivela più di quanto si può banalmente ipotizzare, leggendolo. Anche qui, quel che conta è che Wenders il
poeta del road-movie, attraverso
Hirayama, ha aperto una breccia nel nostro cuore, ci ha indicato una
strada, non una, e non necessariamente
la sua, ma mille strade da percorrere, possibilmente in bici, in direzione di noi stessi .
Jolanda Elettra Di Stefano
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