E’ stata la
mano di Dio - regia di Paolo Sorrentino
Il
mare non bagna Napoli e nemmeno le lacrime, in questo “Amarcord” che non
teme confronti con la matrice felliniana , la fonte alla quale si
richiamano quasi tutte le opere di Paolo
Sorrentino che di Fellini è,di fatto, l’erede ideale.
La scena iniziale, una panoramica del golfo più celebre del
mondo, quello da cui partivano i bastimenti “pe’ tierre assai luntane”, è un abbraccio che non esclude niente e
nessuno, piuttosto comprende le tante Napoli che abbiamo conosciuto ed amato attraverso
gli occhi e il cuore dei suoi innumerevoli artisti . A
tutti rende omaggio quest’acqua che gioca con la chiglia dei motoscafi
creando uno scenario di grande effetto
che comunica allegria e gioia di vivere! Apriamo la mente accogliamo
anche questa Napoli. E’ il tassello mancante di quella geografia, anche
calcistica, che premiava sempre e soltanto il Nord e che si è dovuta ricredere
dinanzi al “genio-Maradona” e inchinare
dinanzi al miracolo!
Man mano che ci avviciniamo alla terra ferma, il paesaggio
però perde il suo fascino; l’azzurro lascia il posto al grigio delle case e
l’identità dell’antica colonia greca si consegna all’anonimato. Qui ad attenderci
il regista ha scelto i “luoghi comuni” più comuni con cui, a torto, ovviamente,
siamo soliti identificarla: l’inganno, la lentezza, la pigrizia, la
rassegnazione, il sacro e il profano, religione e superstizione, intrecciati in
un mix che solo la follia, può tollerare ed ammettere. Si è fatta sera, alla
fermata dell’auto, il famigerato 412, una lunga fila di persone si accalca, in
attesa di poter rientrare al più presto a casa. L’incanto è finito; disperso
nell’aria afosa della terza metropoli d’Italia il profumo del mare. Assumiamo
dunque, senza dare niente per scontato, lo sguardo del regista che ci guida in
questo “ritorno a casa” personalissimo, ma
per niente intimista e autoreferenziale, piuttosto tutto rivolto ad osservare
il suo passato, la sua città con sereno distacco e indulgente pazienza.
Non è il suo dramma che vuole raccontare. Per esso non c‘è parola,
immagine o altro mezzo che potrebbe mai significarlo, piuttosto il peso e il ruolo che esso ha giocato negli
anni già difficili dell’adolescenza, e degli sforzi per superarlo, crescere e
realizzarsi come uomo e come artista. Rispettiamo dunque il suo pudore e piuttosto
che cercare banalmente quanto di suo ha
messo nel suo cinema, cerchiamo di scovare quanto cinema il film contiene.
Rideremo anche, rideremo amaro , ma rideremo, anche di noi stessi.
Lasciandoci
il mare alle spalle, ci addentriamo in una realtà dove tutto è vero e tutto è
falso. E’ Napoli, una delle tante
Napoli; c’è n’è una per ogni genio che
essa ha partorito e questa è quella di Sorrentino che, innanzi tutto, ci fa
incontrare S. Gennaro, sotto le mentite , gradevoli, fattezze di Enzo De Caro. Egli si avvicina ad una donna,
la chiama per nome: “Patrizia!” Legge nel suo pensiero il dramma che la
affligge, la convince a seguirlo, le fornirà –promette- un metodo infallibile
per risolverlo. La invita dunque a salire su di un’elegante berlina d’epoca,
nera, tirata a lucido. Lei si affida a
quell’uomo, come in trans lo segue, senza minimamente considerare l’ora tarda
né tanto meno l’eccentricità della circostanza. Può bastare, per ricavarne la
chiave di lettura di tutto il film, fare sì che l’incredibile diventi credibile
e aprire la strada a quella confessione catartica, a quella lettera che il
regista avrebbe voluto scrivere ai suoi genitori, ma non ha mai fatto.
Questo primo
episodio è inoltre uno dei tanti rimandi che ci fanno intendere che quel che più preme all’autore di raccontare è la storia in
flash, di quell’arte che lo ha stregato a tal punto da fargli desiderare di crearla anche lui, di
farne parte. E’ innegabile che ci sia riuscito. L’atmosfera del primo incontro
cui assistiamo, incuriositi, le modalità, la vettura con cui S. Gennaro si
materializza, fanno subito pensare a quel taxi che in “Midnight in Paris si
ferma a mezzanotte in punto dinanzi ad un stralunato turista, invitandolo a
vivere quella che si rivelerà un’ avventura tanto fantastica quanto
indimenticabile. O forse no, stiamo divagando… l’allusione più attendibile è
quella che ci riporta invece ai
“Vitelloni” quella da cui, sporgendosi, Alberto Sordi fece quel gesto rimasto
memorabile nella storia del cinema.
La donna di cui sopra viene
condotta in uno di quei tanti palazzi barocchi che hanno contribuito a creare
il volto della città, dimore di quei
farabutti di nobili decaduti che, ne
“L’oro di Napoli” se li giocavano a
carte. Una scala monumentale immette in un salone vuoto, spettrale, illuminato
da una luce abbagliante che emana da un enorme lampadario, adagiato a terra, di
sbiego e non sospeso al soffitto, come la logica esigerebbe. E non è questa
l’unica sorpresa. Nel vuoto della sala improvvisamente apparirà “O’
munaciello”, basterà baciarlo sul capo perché anche l’impossibile si avveri. E’
un input su come va seguita la vicenda. Tutto il film consta di rimandi,
simboli, sparsi qua e là come in una caccia al tesoro. Inutile inseguire una
trama coerente. Tutto invita ad oltrepassare il fenomeno per cogliere il
noumeno più nascosto. Alla maniera di Fellini, ma potremmo dire anche di Woody
Allen, anche Sorrentino ama creare
personaggi fantastici attraverso i quali svelarsi e svelare paure, sogni,
inquietudini e ferite mai sanate.
Patrizia è uno di questi, quello fondamentale, appare all’inizio e alla
fine. E’ attraverso di lei che conosciamo la famiglia di Fabietto Schisa, il
protagonista e alter-ego dell’autore. E’ la zia di lui, un’ambigua figura di
donna affascinante, trasgressiva. Col nipote ha un feeling particolare, ne
incoraggia in qualche modo la creatività
ancora in embrione. Dal canto suo lui vede in lei, nella sua matura,
prorompente bellezza, una musa, un ideale cui tendere, il simbolo di quella
vita altra che sta cominciando a sognare
e che potrà compensare i vuoti, le angosce che la vita costringe a sopportare
e, come accadrà in questo caso, ad accettare senza appello,un dolore improvviso
e devastante che stravolgerà la vita di tutta la famiglia.
All’ombra della
tragedia matura infatti un’aspirazione,
un desiderio, una voglia di esprimere tutto un mondo interiore che preme per
venire alla luce e che troverà nel cinema il mezzo più consono per essere
comunicato. Truffaut, Fellini, Tornatore sono
per Fabietto miti che diventano accessibili e familiari dal momento che
si può seguire la loro strada e la loro arte. Da essi Sorrentino trae le figure
più emblematiche del film. Tutte felliniane, infatti, per esempio le donne che
compongono l’universo del protagonista;
tutte appaiono come varianti della “Gradisca”, anche nelle dimensioni
debordanti, le zie, le amiche di famiglia, le vicine di casa. Tra esse spiccano:
la madre di un pregiudicato, un’anziana, arcigna signora che non abbandona mai, neanche d’estate, la
pelliccia di visone che la rende ancora
più grottesca e irritante, la baronessa Focale, rispettabilissima signora che
non esita ad attrarre Fabietto in casa, con la scusa di fargli cacciare un
pipistrello e lo seduce a colpi di spazzola! Non sarà un trauma per lui, ne riderà col
fratello. Sarà questo il primo passo verso il rifiuto di quel piccolo mondo
perbenista e ipocrita da cui dover fuggire prima o poi. Quel mondo che però
era, ahimè, così felice, multiforme e multicolore quando c’erano i genitori a
custodire il nido che la madre riscaldava con la sua allegria. La madre, figura
centrale nella famiglia, come nel film, dovrebbe poter essere la figura più realistica, simpatica, spiritosa, capace di battute che
il napoletano rende ancora più sagaci; una mamma che tutto supera con quella
dolcezza e quel sorriso di chi è
profondamente convinto che “a da passa a nuttata”, salvo poi a scoppiare in un
pianto dirotto, irrefrenabile che i figli si guardano bene dall’ interrompere.
A questo punto, anche per noi, da persona diventa simbolo, personaggio: un
Pulcinella del Vomero, col cuore spezzato dalla doppia vita del marito. Il
padre, Tony Servillo, sempre all’altezza di se stesso nel rendere al
meglio, come in questo caso, un uomo
senza qualità. Per iniziare al sesso il figlio adolescente si esprimerà in
questi termini: “Fabiè, la prima volta, anche un cesso va bene, ricordatelo”!
Non è proprio il massimo come lezione di
educazione sessuale! Tradisce per anni, la moglie, spesso l’ha lasciata sola a
gestire la famiglia. I figli ne soffrono, soprattutto Fabietto, ma accettano
quelle assenze con rassegnata serenità.
Infine a unire e compattare la famiglia e a farle vivere momenti di assoluta
felicità ci sono i goal di Maradona, quel dio del pallone che Napoli ha
venerato e venera come un santo! E ancora i giorni felici: una bella gita in
barca in una di quelle giornate che fanno cantare: “Che bella cosa ‘na jurnata
‘e sole”, bellissima specie se la zia Patrizia se la gode nuda! Bella anche se
interrotta da quel rumore molesto della motovedetta della polizia che insegue una barca di
contrabbandieri. Ci imbattiamo così nella “malavita”, un'altra tessera del mosaico che compone le tante facce di Napoli; fa parte del paesaggio. Sorrentino ne
fa solo un accenno, una metonimia funzionale ad una lezione di Geopolitica
del Mediterraneo che papà Schisa si
affretterà a fare: “Cosa vuoi che sia, Fabiè, vedrai ora buttano il carico a
mare e sono salvi”! L’acqua annega le
sigarette e con esse il reato! Il mare torna tranquillo come prima e il sole a
splendere. Dov’è il problema?! Anche di quel giorno resterà un bel ricordo
quando quel papà, troppo poco tempo dopo, non ci sarà più. In Fabietto, ragazzo
malinconico e taciturno, comincerà a maturare sempre più convintamente l’idea
di seguire la voglia, quella voglia di trasformare in arte quei demoni da cui si sente maledettamente scosso.
E’ solo, non ha amici, cerca una spinta che lo aiuti a concretizzare la scelta
già fatta. Ama il teatro, vuole fare cinema e, se è vero che la vita consiste
nella “ magia degli incontri”, sarà l’incontro con un regista, Antonio Capuano
a chiarirgli le idee e a cambiargli la vita. Lo insegue dopo avere visto un suo
spettacolo costringendolo ad ascoltarlo e inscenandone un altro. E’ questa la
parte più bella del film: un duetto incalzante tra due attori, eccellenti
entrambi- Filippo Scotti è poi una rivelazione!- Meglio di una seduta
psicoanalitica Capuano, mentore e amico, anche nella vita reale del regista,
porterà Fabietto a fare quel salto nel vuoto che puoi riempire solo se hai
qualcosa da raccontare.
“La realtà è scadente”,
ma proprio per questo non basta la fuga
per salvarsene, bisogna rappresentarla con amore e sincerità! Fabio, non più Fabietto
ormai, non esiste più, altro è lui, come altra è la Napoli che lascerà di lì a
poco. Corre a casa infatti, riempie uno zainetto con l’indispensabile e via…
sul treno per Roma. Una cosa lo fa ancora una volta voltare indietro e
sorridere: nel vuoto della stazione, sonnolenta e pigra, appare “O’
Munaciello”… Fabio ha fatto la scelta giusta. non se ne pentirà, assesta bene agli orecchi
l’inseparabile Walkman e si lascerà cullare dalla musica:
“
Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è nu sole
amaro…Napule è una carta spuorca…
Napule è ‘a vuci de criature chi
saglie chiano chiano e tu sai ca nun se’ sule!”
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