Gli orsi non esistono
– Regia di Jafar Panahi

Gli orsi non esistono, esiste l’ignoranza e tutte le forme nefande in cui essa si declina:  prima fra tutte la superstizione alla quale esplicitamente allude il titolo del film e che è, da un lato, un falso, inammissibile ossequio alla tradizione, dall’altro un’ancestrale paura di cui l’uomo non riesce a liberarsi perché in essa vede un orpello, una sicurezza, un “Ubi consistam”, quando dentro si è vuoti di tutto, di sentimenti, di coscienza. E’ un modo di delegare a una forma arcana l’assenza di un’etica e di una, sia pur larvale, forma di spiritualità, lontana anni luce dalla religione. Per non parlare della politica, di cui si sente un’eco lontana, della giustizia che nel villaggio  di Javan ha pure un suo referente, uno sceriffo che la esercita come peggio può, sino a diventare, almeno  nel film, la caricatura di se stesso, man mano che gli eventi  accadono o si fanno accadere e che poi si complicano a uso e consumo della menzogna di cui tutto un villaggio si fa garante, sino a promuoverla al rango di verità assoluta. E’ così che naufragano le ottime intenzioni di un artista, Jafar Panahi che col suo cinema tenta di sollevare il suo paese  dall’ arretratezza e dalla morsa della dittatura che soffoca ogni forma di dissenso ed esercita soprattutto sulle donne una forma di repressione sadica e crudele che scoraggia e impedisce anche la più banale forma di emancipazione: un abito all’occidentale (qualunque cosa significhi oggi) quale può essere anche un velo troppo discosto dal volto. Quello di Panahi, il regista, nel suo : “Gli orsi non esistono”,  è un viaggio breve nello spazio, ma lungo nel tempo, per studiare e far conoscere al mondo la cultura, le radici e le tradizioni del suo popolo, onde ricostruirne il profilo e poter fornire di esso, una rappresentazione autentica, mostrarne luci ed ombre senza infingimenti, senza ipocrisie, senza filtri. La sua poetica è una via di mezzo tra i canoni del Neorealismo italiano con particolare riferimento  a Rossellini, Pasolini  e al cinema-verità di cui questi ultimi furono maestri e Brecht di cui recupera quella forma di recitazione “straniata”, che dà della realtà contemporaneamente una versione e  altre prospettive da cui osservare i fatti. E’ dunque questo l’approccio con cui Il regista  invita lo spettatore a osservare i vari personaggi, gli abitanti di Javan. Egli li segue, li filma con discrezione e maestria  e rivela il lento, esasperante “evolversi/involversi” del loro atteggiamento. La cortesia iniziale con cui Panahi si sente accolto all’arrivo, quell’empatia che tutti i suoi interlocutori mostrano e che è  insita nel DNA dei popoli meridionali, si trasforma nel suo  opposto, svelando il suo vero volto…inganno e falsità.

La vecchia che ospita Panahi, il regista, potrebbe essere indifferentemente una maga o una strega:  l’abbigliamento, l’atteggiamento, la sua affabilità, il suo parlare suadente, quell’empatia che emana dal suo volto sorridente e al contempo enigmatico nonché prostrato da fatiche ed acciacchi. La cornice entro la quale appare, un cortile povero ma accogliente, spazio comune tra abbozzi di misere, minuscole case, dove il tempo si è fermato. La gallina che sussiegosa lo attraversa, due tenerissimi gattini bianchi sono l’unico segno di vita nel torpore di un mondo arcaico, pago di se stesso, impermeabile a qualunque forma di cambiamento e sospettoso di chi volesse portarlo. L’ospite viene accolto sì, con somma cortesia e premure imbarazzanti, ma con la segreta speranza che vada via al più presto. Che cosa cerca, cosa viene a fare? Un regista poi ha tutti i mezzi per registrare, riprendere, fotografare anche quello che non può e non deve. Gli si farà capire e dovrà capire, sarà costretto. Infatti finirà nella trappola  che tutti nel villaggio collaborano a ordire contro di  lui. Anche i bambini vengono coinvolti in quella macroscopica menzogna, ben orchestrata dagli anziani del villaggio allo scopo di assecondare la folle pretesa di un giovane che, promesso dalla nascita a una ragazza che di lui non vuole saperne, vuole costringerla a sposarlo, facendo leva su  un’antica tradizione che fa decidere a partire dal taglio del cordone ombelicale, alla nascita, il destino di tutti i neonati.

Al regista si farà dunque credere che aveva fotografato per sbaglio o per caso, durante la cerimonia della  lavanda dei piedi, la festa di fidanzamento che precede le nozze di due futuri sposi, anche due innamorati appartatisi all’ombra di un fico.  Scompare così in un attimo per Panahi, regista e attore del suo film quella gentilezza affettata, quei “sì signore”, “sì caro signore”, “certamente come desidera signore”, che all’inizio si sprecavano  e ora si tramutano nel loro contrario rivelando la nauseante doppiezza di tutti coloro che lo circondano. Diventano maschere di un teatro dell’assurdo che tutti recitano perché il loro quieto/arcaico vivere, non venga minimamente scalfito: ogni novità può essere un rischio e non vale la pena correrlo. E poi, chi può garantire un domani migliore se l’oggi è fermo all’età della pietra?! E  se ciò è funzionale al regime che insanguina Teheran, l’unica speranza, l’unica aspirazione dei giovani non può che essere la fuga. Anche Panahi viene invitato dai suoi stessi collaboratori a lasciare Javan dove Panahi si è rivelato ospite indesiderato, soggetto pericoloso, una spia! Di conseguenza anche il film  abbandona il tono da commedia, la sottile ironia sottesa ai dialoghi  lascia il posto  a una tensione, a una suspense da thriller che la fotografia accentua.

E’ notte, Panahi esplora in macchina, seguendo le indicazioni dell’amico che è andato  a prelevarlo, pensandolo in pericolo in quella terra di nessuno, dove si fa traffico di tutto, compresi gli esseri umani; appena qualche chilometro e potrebbe oltrepassare il confine, essere libero! Non c’è paura sul suo volto; piuttosto egli esprime amarezza, dolore per tutto ciò che vede, per il suo paese, per quelle radici, per quella cultura che era  tornato a studiare, per meglio comprenderli e trarne l’oro che sicuramente celano, per ricostruire  quell’humus  di cui lui stesso è figlio   e che certo lo ha fatto diventare quello che è.

Panahi prosegue cauto, per osservare, per capire una realtà inaccettabile, ma di cui vuol essere testimone!

Il giorno poi gli rivelerà un particolare  altrettanto raccapricciante, una rissa: un gruppo di ragazzi si accaniscono contro uno di essi,  povera vittima del pestaggio. Egli è solo, i carnefici sono tanti, si vede scorrere il sangue:  Panahi riconosce,  nel volto di quel ragazzo, lo stesso  di quella fantomatica foto che non aveva mai scattato e che ora vede picchiato a sangue da quella banda che sosteneva il suo rivale in amore. Panahi si ferma inorridito, si vede venire incontro il suo affittacamere che, sbraitando, gli intima di andarsene. Panahi blocca la macchina, si sente un rumore sordo, la scena inquadra il freno a mano. Mai metonimia fu più felice: è l’ultima scena, segue il buio  e sullo schermo nero scorrono i titoli di coda.

La realtà è entrata di prepotenza nella fiction. Non è la fuga  la soluzione; la verità chiede giustizia e, perché essa sia fatta, compito di ognuno è assumersi le proprie responsabilità, non andare oltre; oltre non c’è il confine tra un popolo e un altro, ma tra l’umano e il “disumano”!

                                                                        Jolanda Elettra Di Stefano

[Premio speciale della giuria al Festival del Cinema di Venezia 2022]                                    

Commenti

Post popolari in questo blog