" Le otto montagne" - regia di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch

Le otto montagne”, premio Davide di Donatello 2023 e già premio della giuria al Festival di Cannes 2022, è un film denso di contenuti, di messaggi espliciti e subliminari che meritano una riflessione attenta che li porti alla luce e chiarisca il senso ultimo di tutta l’opera, consentendoci di cogliere a pieno, lo spirito e la sensibilità dell’autore del libro omonimo da cui il film è tratto, Paolo Cognetti (Premio Strega 2017)

La montagna ammantata di verde, crea e trasmette sin da subito un’atmosfera di assoluta pace che invita a riconciliarsi con se stessi e con tutto ciò che ci circonda. Sentiamo di essere parte di un universo sognante, una dimensione altra dove regna solo equilibrio e armonia. Questo è l’approccio che l’incipit suggerisce: una famigliola in fuga dalla città giunge a Graines, un pittoresco villaggio alpino, dove ha affittato una casa, per trascorrervi le vacanze. Niente di più desiderabile per Giovanni, Francesca e Pietro, il loro bambino, per staccare dalla routine e disintossicarsi dall’aria malsana della città.  Un film all’insegna dell’ecologia dunque, didascalico e perfettamente in sintonia coi temi di cui si dibatte quotidianamente. Ma,  passando dagli esterni ridenti e suggestivi  all’interno di quella baita dove abiteranno i protagonisti, una luce grigia, interrotta solo dai bagliori del fuoco del camino, rivela tensioni e trasmette una sorta di inquietudine che non accoglie lo spettatore  e non pare sia  entusiasmante per  il piccolo Pietro, un adolescente, ignaro della vita e incapace di quella ribellione che non ha ancora una causa definita, ma che di essa si appresta a vivere  tutti i presupposti sicché quell’estate sarà la prima e l’ultima che trascorrerà interamente con i genitori assecondando la “loro” idea di vacanza, il “loro” sogno di bellezza e serenità!  I bambini hanno bisogno di compagnia ed è un miracolo che Pietro trovi subito Bruno, l’unico ragazzino di quel villaggio da cui tutti, compreso il padre di quest’ultimo,  sono fuggiti in cerca di un lavoro meno faticoso ed economicamente più redditizio e sicuro di quello che la montagna può offrire. Bruno, rimasto solo con gli zii, è ben felice però di vivere tra boschi, ruscelli e cime innevate; lavora sodo, nonostante la tenera età, ed è un valido aiuto per lo zio che riesce a sbarcare il lunario con tutto ciò che ricava, allevando mucche e coltivando la terra. Tutto questo mondo, lontano anni luce da quello angoscioso della città, Bruno farà conoscere a Pietro. La “Torino dove i bimbi non possono andare in giro soli perché tutto è pericolo, ostacoli”, grigiore e smog, scompare così dalla  sua mente; a prendere il  posto  della città saranno prati sconfinati, oceani di verde dove poter correre liberi, cadere, azzuffarsi con l’amichetto appena conosciuto, ridere, sguazzare e bere l’acqua limpida di ruscelli  incontaminati, tradire l’italiano e imparare il dialetto, volgere lo sguardo verso l’alto, ricevere la carezza del  sole e lasciarsi abbagliare dal bianco accecante del ghiacciaio, lassù in cima alla montagna! Una felicità insperata che la voce di Daniel Norgren  dolcemente accompagna rendendola ancora più intensa! Pietro non dimenticherà mai l’estate dell’’84, quella in cui scoprirà l’amicizia, “quel luogo”- come poi la chiamerà- “dove si mettono radici e che resta ad aspettarti, quel luogo dove si torna prima o poi” anche  se insieme ad essa si è provato anche il dolore più grande! Sarà proprio la salita al ghiacciaio, quella immensa distesa di neve gelida a far esplodere l’attrito che comprometterà per sempre il rapporto di Pietro con il padre stregato dalla montagna a tal punto da affidare a lei i suoi più intimi segreti, un diario che il figlio troverà e leggerà quando, vent’anni dopo, vorrà fare i conti col suo passato, riconciliarsi almeno idealmente con quell’uomo tutto casa e lavoro, forse, freddo sì, comunque sincero che gli aveva lasciato, nonostante tutto, un ricordo incancellabile: l’amore per la montagna, la natura,  la sua sacralità, il gusto della solitudine, il desiderio di assoluto insieme a una vago anelito di spiritualità.  E ancora un luogo dove  sentirsi autenticamente liberi e padroni di se stessi,  liberi di volare alto sulle miserie del mondo,  sciolti da quei condizionamenti, da quei binari che ti impongono di realizzare progetti razionali che non contemplano l’errore, l’imprevisto:  “Studia, completa gli studi e poi fai quello che vuoi ; vuoi fare il documentarista , lo scrittore? Prima studia, inquadrati nella società, seguendo i suoi canoni, e poi… e poi…sarai libero di sognare!” Così il padre, un mai così ombroso, ma non per questo meno convincente, Filippo Timi, che anzi qui sfrutta al meglio la sua diversa abilità e conferisce al personaggio, una più  vibrante drammaticità .

Perfetta nel ruolo della madre, Francesca (Elena Lietti )  rassegnata ad essere ombra docile, nei confronti di un marito, sempre assente, quasi spersonalizzato dal lavoro di ingegnere, in un ‘azienda con ben 10.000 dipendenti, privo di slanci , di gesti affettuosi, sia nei confronti di lei che del figlio: “una vita sprecata”, che Pietro gli rimprovererà, un pessimo esempio che non intende seguire. Infatti andrà via da casa e non si rivedranno mai più. Ma anche alla madre, con la quale non interromperà mai il rapporto, ha qualcosa da rimproverare: quel gesto di grande generosità nei confronti di Bruno che si rivelerà deleterio e controproducente al di là delle più che buone intenzioni. Offrire a Bruno, infatti, la possibilità di abitare in città, ospitandolo in casa e dargli così l’opportunità di proseguire gli studi, determinerà una reazione uguale e contraria da parte del padre di Bruno che non solo non accetterà la proposta, ma si affretterà a prelevare il figlio tempestivamente, quell’estate stessa, e  portarlo  in Svizzera a imparare il mestiere di manovale nella ditta in cui egli stesso lavora.

Quando i grandi scelgono per i piccoli, spesso finiscono anche involontariamente per annullarne la personalità, proponendo un modello di vita che non aderisce a volte per nulla ai desideri di chi, come in questo caso, è nato e vissuto in montagna, per esempio, e quella è la sua dimensione, un destino al quale mai -vedremo- vorrà sfuggire. “L’urgenza di educare”, programmare razionalmente non sempre paga, anzi in questo caso avrà conseguenze disastrose! Spezzare nel nascere un’ amicizia, la complicità, la gioia di vivere giocando, quel passo necessario che avrebbe traghettato questi due bimbi alla maturità, che li avrebbe fatti adulti, e invece li  rende di colpo  estranei  come se non si fossero mai conosciuti. Uno andrà via da casa, si adatterà ad ogni sorta di lavoro, per mantenersi e girare il mondo; l’altro, abbandonato senza un minimo di  rimorso il lavoro e quel”vecchio ubriacone” di padre, torna alla sua montagna, a quel villaggio sperduto alle pendici delle Alpi, cui non vorrà per nulla più rinunciare.

Anche Pietro ritornerà, vent’anni dopo. Si rivedranno, costruiranno insieme una casa, la loro “casa dell’estate” e sarà di entrambi e per entrambi quella zona franca della vita dove ricostruire quell’Eden, quell’infanzia, troppo presto e brutalmente interrotta, ricreare quel rapporto armonioso con la natura che li faceva sentire liberi e felici. Sarà un lavoro duro restaurare quel rudere abbandonato e scoperto per caso da Pietro durante una passeggiata verso il ghiacciaio, ma il risultato sarà eccellente: un bell’esempio di architettura rurale, rimettere in sesto un rudere e restituirgli quella dignità e quella bellezza che ben si sposa col panorama intorno, a cui non toglie fascino  contribuendo anzi a preservarne tutta l’autenticità. Se ne ricava una lezione di vita e di stile. Questa casetta costruita con materiali naturali, pietra, cemento e pietra, uno sull’altro come i mattoncini dei Lego, e assi e tronchi di legno a completarne il tetto, ricorda ancora una volta come rispettare il paesaggio sia una scelta vincente. Basta inserire l’opera umana lasciandosi guidare dal buon senso, con discrezione, abbandonando quella presunzione di sfidare il cielo, con edifici sempre più alti,  quelli che segnano lo skyline delle metropoli, e godere della vista di quel ghiacciaio da cui sentirsi raccontare la storia del mondo. Basta raccogliersi in silenzio e sapere ascoltare. Questo ha imparato Pietro, queste parole sono l’ultimo ricordo del padre e gli torneranno in  mente quando, vagando per monti e per valli,  sempre in cerca di cime più alte, giungerà alle falde dell’Himalaya, in Nepal, dove constata, con suo sommo stupore, come quel bianco accecante che sa di purezza e di innocenza fosse identico a quello che aveva segnato la sua infanzia! Quel sole smagliante ora lo invita a sopire ogni rancore, lo induce al perdono,  alla meditazione,  lo invita  a cogliere l’essenza del divino che è la stessa in tutte le fedi! Pietro guarda con tenerezza quella povertà, quelle casupole di fango e terra appollaiate alle falde della montagna più alta del mondo. Esse gli appaiono familiari perché trasmettono quel senso di appartenenza che è un sentimento universale e ci fa sentire a casa dovunque andiamo!

Qui finisce la favola che Luca Marinelli e Alessandro Borghi, in perfetta sintonia fra  loro, hanno saputo raccontare, coinvolgendoci e commuovendoci, ma che di favola si tratti lo conferma lo stesso autore del libro, da cui il film è fedelmente tratto, che ha seguito la lavorazione dello stesso a fianco dei registi,  gli svedesi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, affermando che la storia si ispira a vicende realmente accadute e che l’unico personaggio inventato è proprio Bruno. Quest’ultimo non è altro che quel frutto dell’immaginazione, presente in quasi tutti i racconti di formazione, perché funzionale alla crescita dei protagonisti, quell’alter ego che ogni bimbo crea quando si sente solo e che scompare all’ “apparir del vero” in circostanze più o meno misteriose o verosimilmente tragiche, come in questo caso. A Pietro non rimarrà che vagare per le otto montagne e non tentare più di raggiungere la cima più alta dal momento che proprio su di essa aveva perso un amico!

Un’ultima considerazione: il film si avvale, di una fotografia incantevole, ancora una volta Ruben Impens dà prova  delle meraviglie di cui è capace,  ma la scelta da parte dei registi del 4:3, come dimensione dello schermo, in qualche modo la penalizza. Proviamo dunque noi a riscattarla considerando la cornice quadrata delle scene anch’essa come un simbolo, non solo un espediente tecnico per inquadrare al meglio anche le cime dei monti, e accettare l’invito implicito rivolto allo spettatore di non accontentarsi di una lettura razionale del racconto e proprio approfittando del limite, andare oltre con la mente e proiettarsi  verso orizzonti infiniti!

                                                Jolanda Elettra Di Stefano

Regia. FelixVan Groeningen- Charlotte Vandermeersch

Attori Protagonisti: Luca Marinelli (Pietro)- Alessandro Borghi (Bruno)-Filippo Timi                                             (Giovanni) Elena Lietti (Francesca) 

 Altri interpreti:         Elisabettea Mazzullo (Lara) - Surakshya Panta (Asmi)

Fotografia: Ruben Impens

Musica: Daniel Norgren                                                    

 

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