"Il prodigio", regia di Sebàstian Lelio - (2022)
Sebastiàn Lelio, regista cileno, in questo film, tratto dall'omonimo romanzo di Emma Donoghue, pone il dito su una piaga ancora aperta, quella del fanatismo religioso, della superstizione spacciata per fede, di quell'arretratezza mentale che nega il progresso in tutte le sue forme in quanto opera del diavolo e ancora del rapporto genitori-figli, del sogno dei primi, legittimo, ma sino a un certo punto, che questi possano essere eccezionali quando invece bisogna rendersi conto che è molto più saggio riconoscere in tempo i limiti dei nostri pargoli per correggerli e non esasperarli, chiedendo loro traguardi impossibili da raggiungere. E’ già abbastanza per un film che dura poco più di un’ora, ma c’è un altro aspetto che non va sottovalutato e che è la ragion d’essere di tutto ciò che vediamo e su cui siamo indotti a interrogarci: l’aspetto che potremmo dire “paesaggistico”, da intendersi nel senso, sia oggettivo che metaforico, del termine. E’ il primo elemento che ci colpisce perché la regia e una fotografia eccellente ci affascinano e ci dispongono a farne la prima chiave di lettura di tutto il racconto. Si tratta del rapporto città-campagna e/o isola-continente, che si traduce da orizzontale in verticale e dell’abisso che separa la prima grazie a quel livello di civiltà che secoli di emancipazione hanno contribuito a garantirle, dalle tenebre che invece avvolgevano l’esistenza misera e paranoica dei villaggi rurali dell’Irlanda (ma i fatti narrati potrebbero accadere dovunque, oggi come ieri), alla metà del diciannovesimo secolo, epoca in cui in tutta Europa, val la pena ricordare, si stava diffondendo, cambiandola radicalmente, il pensiero positivista elaborato dal filosofo Auguste Comte.
Quello che il film mostra ha davvero del prodigioso e invita a osservarlo superando quella presunzione che ci porta a pensare per es. che la nostra religione, il Cattolicesimo, non abbia avuto le sue ombre, tanto imperdonabili quanto quelle che condanniamo delle altre fedi religiose. Le teocrazie che attecchiscono e si nutrono di ignoranza e povertà non sono tanto lontane o più pericolose di quella politica che, sbandierando slogan del tipo: “Dio, patria e famiglia”, compie indisturbata le peggiori nefandezze. La moralità, la morigeratezza dei costumi misurata da un lembo di stoffa più o meno coprente il volto di una donna, la dicono lunga sul fatto che il corpo femminile, sia stato e continui ad essere, per dirla con le parole dello stesso regista, “terreno di battaglia politica”- come avviene, in questo caso, quello della piccola Anna, protagonista del racconto.
Oscurantismo, dunque, è la parola giusta che ci può guidare in questa notte senza tempo interrotta solo a tratti dall'azzurro della veste di Lib, unico bagliore di speranza nel grigiore della brughiera. Lib Wright, è una brava infermiera, con grande esperienza anche di teatri di guerra; è stata chiamata, da Londra, per assistere la suddetta Anna, osservarla nell'arco della giornata, perché si è diffusa in tutto il Regno unito, la notizia che non mangia da 4 mesi e i genitori assicurano che non manifesta alcun segno di deperimento; lei stessa dichiara di nutrirsi solo di manna del cielo.
Nel villaggio la credono santa e tutti accorrono al suo capezzale per vederla ed essere in qualche modo testimoni del miracolo. Lib, l’infermiera, non sarà la sola ad assolvere a questo delicato compito di osservatrice; una suora le darà il cambio ogni otto ore per tutta la durata dell’impegno assunto. Così ha deciso il Comitato composto dalle autorità del paese: cattolici bigotti, intransigenti e ipocriti, tra i quali, c’è anche un prete, un giudice, un medico, caparbiamente convinto che Anna si nutra assumendo energia dall’aria e trasformandola in energia vitale, e che dunque non abbia bisogno di cibo, piuttosto tale fenomeno potrebbe essere la scoperta del secolo che conferirebbe al dottore in questione, se riuscirà a dimostrarlo, una fama internazionale! Di prodigioso in verità non c’è nulla in questa vicenda, il vero prodigio sono le due attrici, l’una, la piccola paziente, Kila Lord Cassidy- una vera rivelazione!- e Lib (Florence Pugh, ex“piccola donna” per Greta Gerwig, poi pienamente affermatasi, riscuotendo un successo planetario, con “Don’t worry Darling”) è perfetta nel ruolo di una donna, intelligente, emancipata, aperta, che si trova catapultata nel più bieco medioevo a svolgere un lavoro ben diverso da quello che si aspettava. Questi pensieri rimugina nel percorso che fa dalla locanda dove abiterà, suo malgrado, al casolare sperduto nella brughiera, dove vive con la famiglia la bambina di cui dovrà occuparsi. Tutto fa pensare a un sortilegio, in cui, più che la santità, è in gioco un bizzarro esperimento di stregoneria. La scena stessa è da favola nera e non promette nulla di buono! Lib va però con coraggio e grande spirito di sacrificio ad affrontare questa difficile prova che la necessità della vita le impone: è vedova e l’unica figlioletta che ha avuto è vissuta solo pochi giorni. Due scarpette da neonato sono l’unico ricordo che le rimane e che porta sempre con sé. Prenderle in mano ogni tanto le servirà ad alleviare il dolore e al contempo a sviluppare quella tenerezza nei confronti della piccola paziente che le è stata affidata e che non deve curare, deve solo “osservare” al solo scopo di potere constatare che effettivamente non assuma cibo di nessun tipo e, nonostante ciò non manifesti alcun problema di salute. Neanche un “horror” riuscirebbe ad esprimere meglio la mostruosità di una patologia psicosomatica coperta da un inganno, subdolamente avvolto nel silenzio e nell'ipocrisia. La fotografia di Ari Wegner (che abbiamo avuto modo di apprezzare a fianco di Jane Champion ne: ”Il potere del cane”), giocata sui toni seppia e grigio scuro, rivela da sola, il marcio delle coscienze, delle convinzioni tanto aberranti quanto ciniche di tutti coloro che stanno intorno alla presunta piccola santa. Il senso del peccato incombe su persone e cose, gettando una luce sinistra anche sui suoi giocattoli. Nella sua stanzetta, la culletta da bambola e la bambola sono un commovente richiamo a quell'innocenza tradita su cui tanti, i genitori per primi, stanno speculando. L’espiazione, l’unica strada percorribile per meritare il perdono di Dio! Anna, prega spesso soprattutto S. Agnese, la santa della purezza e della castità. Sarà questa che porterà Lib a sciogliere il mistero che ha attratto anche l’interesse voieristico della stampa per la quale il fatto eccezionale costituisce un ghiotto affare. Da Londra sbarca pure infatti, un giornalista determinato a fare luce sul caso. E’ un giovane dai modi bruschi e sbrigativi, invadente e ficcanaso, convinto di potere in tempi brevi smontare “la bufala”. Non sarà così semplice, si scontrerà anche lui contro quel muro compatto di omertà di un mondo che, per altro, conosceva bene per esserci nato e per esserne poi, non a caso, fuggito. Dopo il primo inevitabile scontro con Lib, decisa a garantire la privacy della malatina, i due, oltre ad intendersi sentimentalmente, saranno complici nel risolvere il caso nell'unico modo possibile per strappare alla morte la vittima innocente di un macroscopico raggiro. Anche la suora che si avvicendava al capezzale di Anna, negherà, interrogata dalla commissione esaminatrice, che la bambina mangi, al contrario di quanto invece fa Lib, portando prove certe del fatto che la madre nutre la figlia, regolarmente, mattina e sera, passandole dalla bocca cibo masticato. Ecco come ne ha garantito la sopravvivenza!
Bisogna agire tempestivamente. Approfittando dell’assenza dei familiari, che ha provveduto ad allontanare col pretesto delle funzioni religiose della settimana santa, la coraggiosa infermiera trascinerà Anna sulle spalle, lontano da casa, dove tornerà soltanto per appiccarvi il fuoco e incendiarla. “Un angelo a cavallo – riferirà poi la suora –avrà involato Anna per condurla certamente verso la salvezza” e la vita -aggiungiamo noi-. Il paesaggio assumerà a quel punto colori più naturali e suggestivi. Un fuoco catartico, che crea nella scena effetti cromatici alla Rembrandt, brucerà e distruggerà quella mole di bugie che stava per porre in atto un delitto perfetto. Andrà in fumo così anche l’ignoranza, ridicole ambizioni scientifiche, malafede e quell’arcaico senso di dominio sul corpo delle donne, alle quali per secoli e secoli è stata negata dignità, intelligenza e autonomia di giudizio.
Se sostituiamo il costume ottocentesco col burqa e il chador, non possiamo stupirci più di tanto di ciò che accadeva nell'Irlanda cattolica del 1862 e apprezzare ancor di più la scelta del regista, che già in “Disobedience” aveva, con la stessa delicatezza e sensibilità, affrontato, in parte, lo stesso tema. Qui egli traduce in immagini, ancora più inquietanti e significative, un storia che ha dell’incredibile, certo, ma è una splendida metafora del medioevo di ritorno che vede nel disprezzo della donna e in una visione distorta della fede, una sorta di principio irrinunciabile che ripugna ai sentimenti ancor prima che alla ragione.
Jolanda Elettra Di Stefano
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