"Qui rido io" - Regia di Mario Martone
“Qui rido io”- Regia di Mario Martone " (2021)
Allora, l’Italia ha votato; dunque al silenzio stampa è subentrato il
rumore-stampa e le chiacchiere da bar. “Qui rido io” ora mi verrebbe da dire, se la
battuta non suonasse troppo sarcastica, data la complessità del momento
storico che, non solo il nostro paese, fresco di elezioni, ma tutto il mondo attualmente vive.
C’è poco da ridere infatti, piuttosto bisogna rimboccarsi le maniche, assumersi le proprie responsabilità,
accollarsi il proprio barile e non scaricarlo al vicino più prossimo, indi, consiglio,
di rivedere con attenzione “Qui rido io”, il film che Mario Martone dedica a Edoardo
Scarpetta, artista poliedrico, attore comico, regista, scrittore, protagonista
assoluto del teatro popolare italiano, a cavallo tra ‘800 e ‘900. E’ la storia
di un uomo, di una famiglia, non una famiglia qualunque, una famiglia di
artisti in un’epoca cruciale per la storia di quell’Italia che non fece a tempo
a godere di quel benessere, di quella “Bell’epoque” che tramontò troppo presto
perché potesse essere realmente compresa e goduta in pieno. Qui il regista, autore anche
della sceneggiatura, ci offre un fedele spaccato dell’Italia di quegli anni,
con la complicità delle sue maschere più rappresentative: Pulcinella e il suo
diretto erede don Felice Sciosciammocca. Scarpetta teneva a precisare e lo ripeteva spesso, di essere stato lui a uccidere Pulcinella, invece, in verità, non aveva fatto altro che dargli nuova linfa. Gli tolse infatti la divisa, lo vestì in
“borghese”, coi panni dei poveri, e, come
sfondo, gli allestì una scena reale, la miseria,
quella che ci viene, per altro, abbondantemente documentata anche dagli scrittori
veristi e dai pittori del tempo, i Macchiaioli, le cui tele grondano di fatica,
dolore e rassegnazione. E così, dando
vita e umanità a Pulcinella, l’autore di “Santarella”, suo strepitoso successo,
conquistò il pubblico, anche quello dei
signori che accorrevano numerosi nei teatri, dove si esibiva la sua compagnia, per ridere delle sue battute
sempre nuove, spesso improvvisate, a raffica al momento, sfruttando al meglio tutte le
potenzialità cromatiche e contenutistiche del dialetto napoletano. Di sera in sera,
il geniale comico le rinnovava rielaborandole a seconda degli umori di quel
pubblico, di quella “Storia” che intanto scorreva fuori dalle scene e cambiava,
preparando un futuro tra i meno desiderabili che si possano immaginare!
La maschera di Sciosciammocca portò fortuna al suo creatore che,
inanellando un successo dopo l’altro divenne tanto ricco da potersi permettere
una lussuosa dimora e mantenere una bella famiglia allargata, all’interno
della quale regnava sovrano, facendo convivere pacificamente sesso, amore e
fantasia. Qui nacque, crebbe e si formò quel figlio “naturale” che Scarpetta non
volle mai riconoscere ufficialmente, ma a cui trasmise col DNA l’estro, la
fantasia, la creatività che faranno di lui quel genio che dominerà la scena
teatrale per quasi tutto il ‘900 e sarà uno dei drammaturghi più amati in tutto
il mondo. Nel film Edoardo-Junior è interpretato dall’esordiente Alessandro
Manna: uno sguardo intenso, occhi sempre attenti a scrutare il mondo, la vita e
il suo doppio; malinconico, intento
sempre a leggere e studiare i copioni del padre che si faceva chiamare "zio", in attesa di potere
esplodere anche lui ed esprimere quella
dolce tristezza, quella risata amara che sarà il tratto distintivo della sua
arte. Di quell’arte che si può
riassumere nel motto che Scarpetta fece incidere a chiare lettere sulla
facciata di quella lussuosa villa che poté acquistare con gli incassi di una
sola serata, “Qui rido io”: un programma di vita e, insieme, un manifesto
d’arte che equivaleva a dire: anche se qualcuno qui piange, come
accadde a Peppiniello, altro figlio naturale avuto da Luisella, nipote ed
amante, peggio per lui...lo si batte con ceffoni e percosse, così impara a non spiare i giochi degli
adulti! Questa la “miseria” che compensa la “nobiltà” di questo padre-padrone che
con la sua istrionica bravura, aveva fatto ridere anche Massimo Gorkij, il
grande drammaturgo russo che era corso ad applaudirlo in teatro e non ci risulta che avesse troppa dimestichezza col
dialetto napoletano!
Sul palcoscenico, dove si esibiva Scarpetta, storia, costume, satira
educavano il pubblico a guardare alla vita con filosofia. La canzone napoletana
che si insinua, discreta, tra le pieghe del film, più che una colonna sonora, è
una voce, un’eco, una “Voce ‘e notte” che parla al cuore più che all’orecchio.
La stessa cosa si può dire della fotografia: Renato Berta, sfumando a tratti
con pennellate di grigio i colori più
accesi, rende più credibili le scene più
vistose e più vera quella piccola reggia, teatralmente arredata dallo
scenografo Giancarlo Muselli, dove, tra velluti, stucchi, cornici dorate,
salotti e tavole imbandite con ogni dovizia desiderabile, vive il re della risata. Anche
gli attori, tutti bravissimi nel simulare umiltà e obbedienza, fanno da coro al capocomico, a casa come sulla
scena. Tony Servillo, perfetto, nel ruolo del protagonista, giocando con la
maschera di don Felice Sciosciammocca risuscita Scarpetta svelandone a pieno tutta la sua contorta
psicologia. Il racconto scorre come un ricordo affettuoso, tra il nostalgico
e l’ironico, di un artista, emblema di un mondo che non esiste più, di un
passato che non può più tornare e di cui
non c’è nulla da rimpiangere, compreso
quell’ incidente di percorso che
trascinò Sciosciammocca in tribunale sol
perché aveva osato sfidare il Vate, Gabriele D’annunzio, parodiandone il
capolavoro: “La figlia di Jorio”.
-“Inaccettabile, vergogna, D’annunzio è sacro e non si tocca”!- Così, urlando, una sparuta minoranza, al
soldo dell’invidia, boicottò la prima
del partenopeo ” Figlio di Jorio”, riuscendo a spegnere l’entusiasmo anche del pubblico più
affezionato che pian piano abbandonò la sala. Era un segnale! Magari l’avessero
colto quelli che abbandonarono la sala senza porsi evidentemente troppe domande!
Un segnale di quella tragica piega che stava prendendo la politica italiana e
la cultura ad essa asservita. L’Italia si stava consegnando al fascismo e
cominciava col sacrificare sull’ altare dell’arte accademica e roboante,
quell’ arte genuina e spontanea che Scarpetta con la complicità del dialetto e
la sua innata verve comica, aveva saputo creare.
L’iter processuale durò a lungo. Numerose furono le sentenze prima di quella definitiva che fu “storica”. L’avvocato, il filosofo Benedetto Croce in persona, riuscì a fare assolvere l’artista dall’ accusa di plagio, vilipendio, contraffazione dell’opera del “sacro poeta D’Annunzio”, dimostrando che il reato non sussisteva, che la parodia era lecita e non poteva certo essere perseguita dalla legge. Nulla purtroppo però sarà più come prima per il grande Edoardo Scarpetta. Una malinconia inguaribile lo angoscerà per tutta la vita. Ed egli, forse anche perplesso e deluso dinanzi all’ affermarsi di un’arte nuova: il cinematografo, puro artificio per lui, frutto di tecniche troppo sofisticate, si ritirerà dalle scene. Aveva intuito che la libertà era in pericolo:
“Condannando me -disse ai giudici nel corso dell’ultima udienza- condannate un’intera forma d’arte!…In Italia dunque in verità non si può deridere chi è potente!… La libertà è in pericolo!
Che altro possiamo aggiungere, noi
italiani di oggi, 26 settembre 2022 ?!?!?!
Jolanda Elettra Di Stefano
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