Il Colibrì (regia di Francesca Archibugi)

Il cinema e la psicoanalisi sono, anagraficamente, fratelli   gemelli separati alla nascita, ma rimasti sempre legati l’uno all'altra da un filo, spesso vistosamente visibile,  a volte nascosto, ma sempre intuibile per noi spettatori che amiamo superare la barriera dell’illusione e,  una volta incuriositi, seguire  l’autore ovunque voglia  condurci per esplorare insieme a lui il sentiero che porta alla verità, la sua, una delle tante, ma pur sempre attendibile se abbiamo  trovato in essa quel “simile a  noi” che proprio stavamo cercando. E’ questo il senso del “Colibrì", film inquietante ma ricco di spunti: a noi la delega di svilupparli e far sì che prolifichino nella nostra mente. La regista, Francesca  Archibugi, da sempre interessata a indagare le dinamiche familiari per fare luce su quel mistero che è l’infanzia e sui danni dell’adolescenza, in questo film, tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi, mostra di avere raggiunto una maturità stilistica che potremmo definire “distopica”, come la realtà che riflette e che riesce a rappresentare, personalizzandola per farla meglio aderire  alla sua disincantata concezione del mondo. Infatti, rispetto alle opere precedenti, in questa rivela più di se stessa,  della sua ricerca, del suo interesse per quello scandaglio della psiche umana che ha sempre condotto con delicatezza, senza intervenire con facili giudizi sui fatti narrati né tentare  ipocritamente di addolcirli. Nel dirigere gli attori, la regista attua una sorta di gioco a “nascondino”, imponendo loro un ritmo e un montaggio   per noi spesso disorientante, ma che non fa sconti a nessuno.  Di ognuno dei personaggi appaiono così luci ed ombre  che non  ci consentono di identificarci  con l’uno o con l’altro. Inseguiamo invano  una catarsi  che non c’è né ci può essere in chi, come il protagonista della vicenda narrata, vive apparentemente appagato da quel tutto/niente che si è trovato  per diritto di nascita e che anzi poi lui stesso ha reso ancora più solido, sublimando i propri complessi, soffocando le paure e raggiungendo infine quello “statu quo” atarattico in cui, autoassolvendosi o autoconvincendosi di non soffrire,  pensa, con somma presunzione a sua volta, di non fare soffrire nessuno. Non c’è di meglio di un attore come Pier Francesco Favino, lo stesso che, diretto da Marco Bellocchio,  è riuscito a vestire di un briciolo di umanità anche il superboss Tommaso Buscetta, per indurci se non a giustificare, a comprendere in qualche modo questo aspetto “perverso” della bontà che francamente ignoravamo.

Marco Carrera, il protagonista appunto, bambino nato tendenzialmente nano e fatto crescere con una buona, efficace cura di ormoni, diventa un uomo fisicamente normale e nulla gli impedirà di realizzarsi perfettamente, così almeno pare: carriera brillante, ottimo medico e stimatissimo professore universitario; avrà una bella famiglia e un solo vizio, il gioco a carte, ma col passar del tempo saprà affrancarsene.

 Le estati e il tempo libero li trascorre  nella casa dei genitori vicino al mare che generoso la lambisce sino alla soglia: una bella villa, come lo “status” detta, ma caotica e dispersiva, non c’è un punto di riferimento, un dettaglio su cui posare gli occhi: grandi spazi inversamente proporzionali a quell' infinitamente piccolo di cui i sentimenti vanno  invece incessantemente in cerca.

Qui Marco ha vissuto da bambino, coccolato dai genitori, soprattutto dalla madre, architetto, donna colta, sensibile, ma che, delusa per non essere riuscita a realizzare in pieno la sua creatività, al figlio ha inconsciamente trasmesso quel vuoto, quell’ amarezza che il marito non ha colto, pur amandola,  e che anzi ha acuito,  creando nella coppia, quella distanza che  non si è mai sforzato di colmare. Ancora una volta Laura Morante, con una felice interpretazione, dà spessore a un personaggio, che altrimenti risulterebbe  scontato, ad una figura di donna che non andrebbe oltre lo stereotipo della donna frustrata, di moglie  infelice e madre su cui pesa il senso di colpa e l’inadeguatezza nei confronti della maternità, tipico della generazione postbellica che fece della trasgressione alle regole, della lotta alle ipocrisie, retaggio ottocentesco delle  madri  e  delle nonne, la pietra d’angolo della sua emancipazione.

E trasgressione è proprio la parola chiave che ci aiuta a leggere tutto il film; quella che conduce  alle svolte nella vita degli altri personaggi  che però non risultano altrettanto convincenti, anzi sembrano  caricature accanto a quei “caratteri” che invece esprimono tutta la drammaticità dell’opera. Impagabile  il duetto dei due comprimari Favino e Moretti, un “double pass” degno degli interpreti dell’epoca d’oro del cinema italiano! Due uomini, due seri professionisti, irreprensibili nell'esercizio delle loro funzioni, si trovano a litigare (per motivi che tralasciamo di spiegare per non togliere gusto alla visione del film) e si maltrattano in un crescendo di  pesanti botte e risposte, trasgredendo i limiti  della deontologia  professionale, ma anche le più elementari norme  del più comune buon senso. Affiorano così  le verità nascoste di entrambi che realizzano finalmente come  la loro vita sia stata sempre e  solo  una farsa: il colibrì, cosi veniva chiamato Marco in famiglia, capisce che le ali - avercene!- hanno tutt'altra funzione che non quella di osservare da fermi tutto ciò che ci sta intorno. Il dottor Carradori (Nanny Moretti) si libererà delle maglie in cui i suoi stessi studi, il suo lavoro,  lo hanno irretito.   La psicoanalisi  si incrina e naufraga, ma non con le migliori intenzioni che invece finiranno paradossalmente per guidare i due  interlocutori verso la soluzione della controversia: saranno amici  per tutta la vita! Nanni Moretti, sceso dal “terzo piano, “ dove lo avevamo lasciato  nel suo ultimo film, qui si conferma autore di se stesso anche se, come in questo caso, accetta di fare da spalla al protagonista,  Pierfrancesco Favino che a sua volta non si esime dal confessare le sue fragilità, le sue paure, la sua innata timidezza, quella  falsa sicurezza  che lo fa essere, in verità,  carnefice di una moglie malata, mai veramente amata, mai veramente capita! Kasia Smutniak,  che un trucco impietoso   appesantisce e involgarisce, qui risulta poco credibile, però, come del resto anche  le altre figure femminili, tra le quali spicca Luisa, la pseudo-amante  di Marco, quella che ha accettato il ruolo di fantasma nella vita di lui, la grande assente parigina (che tanto ricorda la francesina  Mignon,  protagonista della deliziosa commedia dolce-amara degli esordi della Archibugi) che  si materializza nei momenti di evasione dal “Domicile coniugale”- momenti che si spiegano solo con l’avoir besoin” come lei stessa li definisce e noi non possiamo che accettare per fede se a suggerircelo con tanta grazia è Berenice Bejò

E  c’è un’ ultima donna da non tralasciare, perché anch'essa gioca un ruolo fondamentale,  la Natura che la regista tiene a mostrare spesso, nel suo doppio aspetto accogliente e insieme in quello di matrigna di leopardiana memoria; Marco dice di amare il  paesaggio marino perché é rasserenante,   ma su di esso incombe una  roccia scura, ossessivamente inquadrata, triste presagio:  sarà fatale, infatti, per Irene,  l’ “Incompresa” della famiglia che come tutti gli “Incompresi” di cui abbonda tutta la letteratura per l’infanzia, ama il difficile, le sfide, il rischio. Arrampicarsi sulla roccia era sempre stato il suo sport preferito sin da bambina sempre alla ricerca forse,  di quel che  avrebbe dovuto  compensare una vita troppo facile, ma quasi mai felice!

Film inquietante, diretto con maestria sino all’”Ultimo respiro” cui conduce anche una musica incalzante e onnipresente che si stempera  a poco a poco  nelle malinconiche note della canzone  di  Sergio Endrigo che Mengoni  interpreta meravigliosamente, offrendoci un finale da “grand- melò” e accompagnando i titoli di coda che lasciano nella mente il dubbio che quel che abbiamo visto: gioie, dolori, drammi, tradimenti, menzogne, traumi infantili egregiamente superati, traumi  puerili eterni, amori, disamori,  maternità, paternità   ci chiede di  accettare quest’ultima fatica della Archibugi senza porsi troppi “distinguo”; prendere o lasciare  dunque questo film che fa discutere perché è esso stesso discutibile!

                                                                                Jolanda Elettra Di Stefano

Commenti

Post popolari in questo blog