"Tre piani"(2021) -   Regia di Nanni Moretti   

Rieccolo lo splendido quarantenne che si godeva la sua città in pieno agosto a spasso con la mitica vespa; con qualche anno in più,  ma con la stessa coriacea coerenza, lo ritroviamo, di nuovo, dietro la macchina da presa, a  sfogare il suo disincanto in un opera di amara poesia. Non è  più la Garbatella, ridente e assolata, a fare da sfondo a questi “Tre piani”, ultima fatica di Nanni Moretti, ma un  elegante quartiere romano, immerso nel buio di una notte senza stelle. Il regista, questa volta, la prima volta, legge e fa suo il bel romanzo dello scrittore israelita Eshkol Nevo, lo priva di quella luce rosa che colora i cieli della Palestina e di esso crea una versione speculare nello spirito, ma non negli intenti.  Da Tel Aviv voliamo a Roma  che  qui è emblema di un universo cupo e decadente, di un Occidente malato, dove la  speranza è solo il nome di un ministro e il futuro, una direzione verso cui si ha paura di guardare.  Il racconto che segue, infatti, è la lenta composizione di un puzzle di vite che costituiscono quel microcosmo umano, protagonista del film, per meglio dire quel prototipo di esistenza alto borghese che è giunto al capolinea   e non può che esplodere, rivelando tutta la sua inconsistenza, anche affettiva e la sua rassegnata resa alla vita appagante, ma lontana anni luce da una vera felicità. La scena iniziale è  l’’incipit di un noir; esterno notte:  sulla via appena illuminata dalla fioca luce  dei lampioni, si affaccia  una palazzina signorile, di soli tre piani, protetta da un pesante cancello che la isola dalla strada e dalla “vita”, conferendo alla facciata dell’edificio un aspetto severo che non promette nulla di buono. Dal portone vediamo uscire  una giovane donna in preda alle doglie dell’imminente parto,  che chiede inutilmente aiuto, un passaggio per l’ospedale; le risponde il silenzio e, qualche istante dopo,  uno schianto. Una macchina che corre a velocità insensata va a sfracellarsi contro la serranda di un basso, dopo aver travolto una donna, uccidendola, sapremo poi.  Di li a poco il buio si anima di visi increduli, di voci che si  interrogano sull’accaduto. Nessun testimone per poter ricostruire i fatti: c’è una donna che giace a terra in fin di vita; Andrea, il figlio del giudice del terzo piano, l’unico responsabile! Era lui alla guida dell’auto; il padre, inebetito, guarda l’ambulanza che lo porta via ferito e sanguinante. Nanni Moretti, regista ed interprete, è qui personaggio  più che persona, allegoria di se stesso, potremmo dire: troppo perfetto per essere vero, irreprensibile, incorruttibile, “giusto”, come è giusto che sia un giudice, dalla coscienza e dalla vita  senza ombre. Distante e lucido sempre dalla materia da trattare, si rifiuterà di chiedere, per il figlio anche le benché minime attenuanti, per ridurre la pena. Andrea ha sbagliato e dovrà pagare! La madre (Margherita Buy), giudice anch’essa, dovrà rassegnarsi e adeguarsi alla volontà del marito che addirittura le chiederà di scegliere tra lui e il figlio; col figlio infatti, non vuole avere più  nulla a che fare dal momento che li ha sempre delusi  come genitori,  nel non avere mai voluto seguire i loro consigli, la strada da loro indicata, e che, con quest’ultimo imperdonabile atto, ha finito per compromettere irrimediabilmente il  loro prestigio professionale.

La famiglia  or ora descritta  è quella del terzo piano. Il loro  un appartamento elegante, ma sobrio, uno scrigno di valori più che di cose. Niente è esibito o posto in evidenza per farsi ammirare e la macchina da presa scivola piano nell’interno senza sottolineare nulla che non rifletta se non una vita di studio, sacrifici e perfetta adesione alla scelta professionale ed umana di coloro che la abitano. Almeno così sembra, fino a quando tutto questo dignitoso e sereno vivere non naufragherà di fronte a quell’ oceano di enigmi,  spesso incomprensibile,  che sono i figli, di chiunque, del ciabattino come del magistrato, i quali invece esigono attenzione, complicità, un po’ di allegria. Anche un giudice in famiglia  è chiamato ad essere padre e non certo un padre giudicante, ma amorevole e comprensivo, felice di affiancare la madre  nell’impresa ardua che per tutti  è accompagnare nella crescita le proprie creature e accettare le varianti se poi le scelte non combaciano con i desiderata. In poche parole, scendere dal piedistallo  per incontrare l’alterità e non fare l’errore di soffocarla, umiliarla, esasperarla a tal punto da determinare, come in questo caso, una reazione uguale e contraria!

Ancora più clamorosa, tanto per rimanere in argomento, l’ “assenza” del padre, al secondo piano della palazzina, che è  l’unità di luogo in cui si svolge l’azione; qui  vive Monica, quella giovane donna che proprio la notte della tragedia, correva in ospedale in preda alle doglie dell’imminente parto! Il marito non c’era e non c’è del resto quasi mai perché  il lavoro lo costringe a lunghi periodi di permanenza all’estero. Monica  soffre, non ha nessuno con cui parlare, al di là delle porte di casa, in tutti e tre i piani, a lei sembra che vivano solo ectoplasmi , tutti chiusi nel loro guscio e privi del benché minimo slancio verso l’altro da sé, come in ogni condominio che “non” si rispetti.  Nel caso di Monica , la depressione post-partum  poi  ha giocato pure il suo ruolo, ma la solitudine  pesa ancor di più; è quell’elemento alienante che le procura anche una strana forma di allucinazioni. All’improvviso infatti le  appare,  o almeno lei crede di vedere, a volte proprio accanto a sé, un corvo nero gracchiante, enorme che la atterrisce e condiziona non poco la sua vita.   E’ una variante  sgradevole, va detto, di quel barbagianni che invece si era inventata Nevo, l’autore del libro da cui il film è tratto, e crea un effetto ancora più inquietante. Il corvo, si sa, infatti, pur potendo vantare  un passato glorioso che lo aveva visto in tempi antichi  amico e complice di santi ed eremiti, con i quali veniva spesso ritratto, ha subito anch’esso il rigore della  Controriforma che,  declassandolo come simbolo, lo ha inchiodato a un destino che lo vuole uccellaccio del malaugurio; e tale è rimasto per sempre.

Manca infine all’appello solo il primo piano. Qui vivono due famiglie, stranamente in buoni rapporti tra  loro: da un lato Agnese, Lucio e la loro bimba Francesca, di fronte Renato e Giovanna, due anziani signori che spesso e volentieri si prestano a fare da baby sitter alla bambina, cosa che è per loro motivo di svago e di allegria. Niente di più normale tra persone che si stimano vicendevolmente  e tra i quali sussiste  un cordiale rapporto di amicizia che durerà fin quando  il tarlo del sospetto non  avvelenerà le loro vite, innescando un processo, formalizzato poi anche sotto il profilo giuridico-penale,  che si potrarrà per ben dieci anni. Emerge così un quadro chiaro di una realtà sulla quale il regista, lungi dal giudicare, si interroga  e ci chiede di interrogarci. Egli osserva come da un oblò, e quelli che vediamo sembrano pesci nuotare in un limbo dove i sentimenti si annacquano sino a scomparire, stritolati dalla logica delle abitudini, dell’ ”in-quieto” vivere, del lavoro  che fagocita e avvelena la felicità, del denaro infine, che distrugge irrimediabilmente il legame, anche tra fratelli. In quest’universo, dove pare non si salvi nessuno, c’è però qualcosa che colpisce ed è l’innegabile forza positiva delle donne, uno dei pochi elementi che combaciano col libro  cui il film è ispirato. Tutte mostrano una grazia, un’intelligenza, una sensibilità che fa ombra agli uomini e di essi piuttosto mette in luce la fragilità e l’inconsistente spessore caratteriale ed affettivo. Bravissime le attrici nel rendere questo difficile ruolo  di protagoniste in questa lunga strada che continua ad essere, anche in Occidente,  la, mai del tutto compiuta, storia di  emancipazione delle donne. Tenera la Rohrwacher come mamma,  ma sempre pronta, con quello sguardo tagliente, a spingere lo spettatore ad andare oltre l’immagine e  a indagare la complessità dei caratteri che interpreta. Degne di nota le piccole esordienti, penalizzate dal non potere padroneggiare il personaggio dall’inizio alla fine del racconto. Perfetto il neonato, che non deve dimostrare niente a nessuno, anche inquadrato accanto all’orrendo pennuto, allatta sereno al seno della madre.

Tra tutte spicca in particolar modo, Margherita Buy ; misurata elegante, a tratti commovente, dà al suo personaggio quelle sfumature che lo rendono credibile e autentico. E ancora Anna Bonaiuto, sempre all’altezza di se stessa; anche in questo cammeo, fatto più di silenzi che di parole, comunica il senso del dramma  senza mai scivolare nel patetico.

  Quest’ultima fatica di Nanni Moretti, che per la prima volta ha scelto di tradurre per lo schermo un testo non suo, al di là degli ovvi distinguo tra testo scritto e trasposizione cinematografica, stimola come sempre, non poche riflessioni, anche in rapporto a tutta la filmografia dell’autore. A prima vista sembra mancare quello che è un tratto distintivo della sua estetica, l’ironia che stemperava anche le più tragiche delle sue opere e il rimando, spesso diretto, esplicito alla politica, presupposto e fine della sua arte;  va da sé che è solo un’impressione legata a un primo approccio al film, perché è proprio quest’assenza apparente, dell’una e dell’altra, che ci riportano il Nanni Moretti corrosivo e spiazzante di film come:  “Bianca” o  “ Palombella rossa”, tanto per citare due delle sue opere più significative al riguardo. La stessa musica monotona e dolente che accompagna  quasi tutte le scene, non incoraggia a dare del film una  diversa lettura. La conclusione che si  trae è che da questa paranoica “Home” a tre piani tutti vogliono, per ragioni diverse, fuggire: “Il mondo è più grande di questo condominio” è infatti la battuta più emblematica  che può chiarire al meglio le intenzioni dell’autore.  Fuori dalla metafora la location dell’azione non è altro  che un modulo che, moltiplicato all’infinito, può rappresentare il mondo intero, dove si vive come monadi estranei al prossimo,  perché innanzi tutto si fa fatica a leggere dentro se stessi. Ogni modulo può rappresentare un paese, per es. il “Condominio Italia” dove si mangia molto e si pensa poco, anzi non si pensa affatto,  si delega e si tira a campare; quale politica può esprimere una realtà così alienante se non quella che abbiamo, anemica, debole, incapace di concepire valide prospettive per il futuro che intanto vede un terzo conflitto mondiale  profilarsi all’orizzonte non troppo lontano.

Non ci resta che sperare nel “Sol dell’avvenire",  prossimo film che Nanni Moretti ha già  

 cominciato a girare e di cui ha già annunciato il titolo!

                                                                           Jolanda Elettra Di Stefano                                                                               


Tratto dal Romanzo omonimo di Eshkol Nevo

Sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella                                                 Regia: Nanni Moretti

Attori protagonisti: Nanni Moretti- Margherita Buy- Alba Rorwacher- Riccardo Scamarcio-                                            Adriano Giannini-  Alessandro Sperduti- Elena Lietti- Denise Tantucci

Musiche:  Franco Piersanti

Costumi. Valentina Taviani

                                                                                                      

 

                         

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