"LA MISURA DEL DUBBIO" (2024), Regia di Daniel Auteuil
Se fosse una storia inventata, l’avrebbe scritta Simenon e avrebbe avuto un epilogo inequivocabile e appagante , invece “ La misura del dubbio” ci fa conoscere un fatto realmente accaduto; dunque, dopo averlo seguito col fiato sospeso, indotto da una buona dose di suspence, sapientemente orchestrata da un montaggio ad essa complice, assistiamo ad un finale che spiazza e delude non poco; si rimane con la sensazione che qualcosa non quadri e che il caso necessiti di ulteriori indagini e approfondimenti. Desta non poche perplessità, per esempio, il fatto che l’imputato si rassegni a scontare la pena, rifiutando anche il ricorso in appello che l’avvocato difensore, assegnatogli d’ufficio, gli consiglia vivamente, puntando sul fatto che le prove che lo incriminerebbero sono del tutto irrilevanti, se non addirittura al limite del ridicolo! La giustizia, come troppo spesso accade, latita ed è essa la vera vittima di questo “legal-drama”, interpretato e diretto dal grande Daniel Auteil, alla sua quinta prova dietro la macchina da presa. La vicenda si svolge nel sud della Francia,
nella regione della Camargue, pochi chilometri più a sud di Arles, la città che
Van Gogh scelse perché l’atmosfera calda, la luce, i colori avrebbero incendiato la sua fantasia di pittore e, come
del resto accadde, fatto esplodere al massimo la sua creatività. Nulla di tutto
questo vediamo in questo suggestivo angolo di Francia, che invece ci appare
immerso, per tutta la durata del film, in una luce crepuscolare che la fotografia
di Jean Francois Hensgens accentua per rendere più inquietante la “misura del
dubbio”! Misura e dubbio sono però due termini antitetici e sin da subito
inducono a riflettere su quanto sia
impalpabile e aleatorio il concetto di “Giustizia”, se il dubbio avanzato dalla
difesa nei confronti dell’imputato, durante il processo, può essere
quantificato, perde valore quella
“Verità” che pochi elementi incerti e
confutabilissimi avrebbero convinto la corte, e viene meno il fascino del mistero che in ogni thriller che si rispetti, non può mancare.
Evidentemente non è questo l’intento che avrà determinato la scelta del soggetto da parte
dell’attore/regista; piuttosto Auteuil, dopo averci regalato in altri film, performances eccellenti, da grande, raffinatissimo attore quale è, qui pone quella
stessa eleganza, quell’impeccabile “aplombe”, quell’intelligenza sottile,
quella sensibilità, a servizio di una realtà sordida che innanzi tutto si
rifiuta di accettare e ancor più di fare accettare alla corte. Si delinea
così, dinanzi ai nostri occhi, la
personalità di un uomo, contorta, contrassegnata da luci e ombre che lo hanno
reso fragile e demotivato. Percorriamo il labirinto della mente dell’avv. Monier,
un avvocato non proprio di chiara e specchiata fama, ma certo non uno
sprovveduto. Se, approfittando dei cavilli che la legge stessa fornisce, in
passato era riuscito a far assolvere un assassino che poi però, una volta
libero, era tornato a delinquere, ci rendiamo conto che è l’etica professionale
il vero imputato di questo processo che altrimenti avrebbe come oggetto solo un
storia di ordinaria follia. Nella
squallida cornice di una qualunque periferia infatti, un uomo uccide la moglie,
da tempo dedita all’alcool e non più capace di occuparsi della famiglia, di
accudire i suoi cinque bambini, ai quali, solo lui dedica ogni cura e ogni
attenzione possibile. E’ questo un movente plausibile? Per la giudice, e per la corte tutta, sì anche perché un
testimone chiamato a deporre dichiara di aver visto, da lontano, la vittima
nell’attimo in cui veniva aggredita da due uomini e quindi probabilmente uccisa dagli
stessi. Non si capisce perché non ha chiamato
subito la polizia e non è una spiegazione del tutto attendibile la risposta che
dà a questo riguardo. Nonostante la
vaghezza della testimonianza, essa viene acquisita agli atti e accettata come
probante ai fini del verdetto: vent’anni
di carcere per quel marito assassino che avrebbe agito in collaborazione di
Roger Marton, l’amico fidato, proprietario del bar vicino casa, dove spesso Nicolas Milik si recava a
sfogare la sua disperazione. Nulla di
certo, dunque, ma il processo si chiude e per l’imputato si aprono le porte del
carcere. Rimane per l’avvocato l’amarezza, la delusione non solo per la
sconfitta, ma per quella che egli ritiene la sconfitta della legge, non “dura
lex, sed lex”, in questo caso, ma sabbia mobile, come quella dello stagno dove
passeggiano i fenicotteri rosa e che appare in lontananza sullo schermo, come
unica immagine di bellezza in tanta miseria, in tanto buio; quel buio della ragione
che farà passare notti insonni ad un uomo stanco, depresso e al quale la
professione, che aveva scelto con tanto entusiasmo da giovane, appare ormai priva
di senso e nella quale non ripone più alcuna fiducia. Intorno a lui, l’avv. Monier vede
solo ipocrisia, senso di rivalsa, ambizione, indifferenza verso quel tipo di
attività umana che di umano non ha nulla, se non la smania giustizialista che
si appaga di aver trovato il “capro espiatorio” da sbattere in galera e
soddisfare così la stampa e l’opinione pubblica!
Questo, tutto questo, pensa ed elabora
nella mente l’avv. Monier e tale garbuglio di elucubrazioni mentali gli appare
trasfigurato, nel sonno, in un incubo: un toro gli viene incontro minaccioso e
gli punta contro, come fosse un torero, due corna spaventose invitandolo alla
lotta. Lo sveglia la moglie, ex moglie ormai ma unica vera amica, anche lei avvocato che lo
aveva messo in guardia, cedendogli il caso, dall’idea di voler vincere a tutti
i costi la causa: bisogna pur ammettere qualche volta di aver torto, gli ricorda anche quando, come in questo caso, è solo un filo sottile
del tessuto della giacca dell’imputato, trovata attaccata alle unghia della
vittima, a fornire la prova “regina” .
Più che il delitto, al centro di quest’opera è
la sofferenza di Jean, il protagonista, e il suo caparbio relazionarsi al mondo
attraverso la lente della professione , lontana ormai anni luce da quella
giustizia a favore della quale dovrebbe esclusivamente operare. Sono i tanti
volti della realtà che la freddezza, il rigore dei sia pur numerosi, ma mai esaustivi comma della legge, potranno mai ricostruire per giungere alla verità. Daniel
Auteuil dirigendo se stesso, si rivela perfettamente all’altezza di ciò che
vuole esprimere: rendere le varie sfaccettature dell’esistenza, alle quali solo
un approccio autenticamente umano, può rendere giustizia. Lo stesso paesaggio della
Camargue, dove il film è ambientato, si presta a rendere la contraddittorietà
della vita; ai fenicotteri infatti fanno da contraltare, spesso inquadrati come
comparse, ma imprescindibili comparse, tori addestrati per la lotta: un’usanza
anche qui, come in Spagna, a tutt’oggi praticata e un tragico esempio di
antropologico orrore!
Jolanda Elettra Di Stefano
Regia: Daniel Auteil
Sceneggiatura: Daniel Auteil e Steven Mitz ( liberamente tratta dalla raccolta di racconti : "Au guet-aplus: croniques de la justice pénale ordinaire dell'avvocato Jean Yves Moyart )
Attori protagonisti: Daniel Auteil, Grergory Gadebois, Sidse Babett Kundsen, Alice
Belaiardi
Fotografia : J. F. Hensgens
Musica : Gaspar Klaus
Montaggio : Valerie Deseine
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