“Marx può aspettare” e forse, paradossalmente, si potrebbe
affermare che il suo tempo è ancora di là da venire. Oggi che siamo sull'orlo
di un terzo conflitto mondiale, a causa dell’aggressione dell’Ucraina da parte
di quel paese che, per primo un tempo, era riuscito a instaurare il “Comunismo
reale”, il marxismo desta non poche perplessità. Senza nulla togliere al merito
del genio che lo concepì e al valore incontestabile del suo pensiero, è lecito
interrogarsi sull' impossibilità di realizzare le utopie, ma di non negare ad esse il compito
imprescindibile di indicare una strada
da percorrere, senza farsi troppe
illusioni e soprattutto senza la presunzione di potere applicare, alla lettera, teorie astratte, senza tener conto di tutte
le varianti che la storia “in fieri” può prospettare; in breve, di quello che l’antropologo Jacques Le Gauff definiva
“fattore irrazionale”, da riferirsi, sia al singolo individuo
che alle società. Tutte le utopie
naufragano insieme alle migliori intenzioni, dinanzi alla forza bruta, alle
armi, ai carri armati, a tutti quei micidiali ordigni di guerra che
l’uomo non ha mai rinunciato a costruire o anche solo dinanzi alla “real politik” e alle smanie
imperialiste di leader cinici, ambiziosi e irresponsabili. Possiamo commuoverci
dunque e sostenere l’Ucraina con ogni mezzo ma dobbiamo ammettere che nei confronti
di quel pericolo che incombe sull'Europa tutta, abbiamo anche noi una buona
parte di responsabilità, per non
aver saputo soffocare quei rigurgiti di fascismo che fuoriescono
continuamente dalle bocche che inneggiano al “Sovranismo” senza sapere neanche
che cos'è! E’ questo, a mio avviso il messaggio che si legge tra le righe di
questo racconto autobiografico di Marco Bellocchio. Egli parla della tragedia che
ha colpito la sua famiglia; dinanzi ad essa, lungi dall'autoassolversi, recita
una sorta di “mea culpa”, sincero e commovente,
ma non trascura di tracciare, sullo sfondo, un quadro lucido ed
esaustivo della storia d’Italia, in questo caso, dal 1939 al 1968,
in linea con i principi che hanno sempre ispirato la sua filmografia e
nutrito la sua arte. Tale excursus fa
luce anche sul disorientamento che oggi viviamo, su quel vuoto di potere, su
quel fallimento della politica, che è sotto gli occhi di tutti. Il virus non è
che un alibi, ancor più lo è parlare di rischio di una terza guerra mondiale,
se emerge dai fatti, sempre con maggiore chiarezza, che non si è mai mosso un
dito per evitarla.
Già nel 1967 Marco Bellocchio, col suo primo lungometraggio
“I pugni in tasca”, aveva messo sotto accusa il perbenismo borghese, rivelando
e condannando, in particolare, le contraddizioni dell’“istituzione famiglia”
che di esso era custode e garanzia; in questo suo ultimo film, ci svela i presupposti di quella condanna senza appello che fece di
lui, in ambito cinematografico e non solo, la voce più convinta e credibile
della contestazione del ’68. Solo oggi
però, a ottant'anni suonati, afferma di avere sentito la necessità di ritornare
indietro nel tempo e recuperare quella memoria sospesa, quel ricordo personale,
questa volta dettato solo da affetto, da
dedicare a Camillo, quel fratello-gemello, fragile e incompreso di cui rimpiange di non essersi accorto in tempo, di
quanto fosse profonda quella ferita che il male di vivere aveva scavato dentro
di lui. Essa andava curata, afferma con rammarico, con ben altri rimedi che non
propinandogli, anche con assoluta sincerità d’ intenti, slogan stereotipati di
quella rivoluzione mancata di cui oggi
percepiamo, in pieno, contraddizioni ed errori. Di essi, vittime
dirette e indirette, furono tanti
intellettuali ed artisti tra i quali Luigi Tenco, cantautore e poeta tra i più
grandi del nostro panorama artistico e culturale: Camillo rimase fortemente
colpito da quella tragica morte e potrebbe anche in essa, essere individuata
una delle cause di quel gesto estremo che anche lui purtroppo volle compiere.
Le vite degli artisti
in qualche modo si somigliano e questa dolorosa vicenda privata di Bellocchio
mi ha fatto tornare in mente, per analogia, un particolare della vita di
Salvador Dalì. Il noto pittore, infatti, si riteneva il gemello sopravvissuto
dei due bimbi che la madre aveva partorito a distanza di poco meno di un anno,
l’uno dall'altro. Il primogenito era
però morto appena nato e Salvador diceva di aver trovato solo nell'arte il
miglior conforto per quel vago sentimento di inconscia inadeguatezza che anche
lui aveva provato per quella perdita che
tanto dolore aveva provocato nei suoi genitori;
essi dal canto loro, vedevano in
lui l’incarnazione di quel bimbo troppo presto strappato alla vita.
Camillo e Marco erano invece gemelli e, come tali, a quanto
pare però, come spesso capita, uguali e contrari sin da bambini. Tanto Camillo era delicato, timido,
introverso quanto Marco più aperto e più forte di carattere. E se già la famiglia tendeva a distinguerli nettamente, la scuola
non farà che acuire le differenze tra i
due fratelli e Camillo dunque non potrà che essere vittima di questa mancanza
di tatto e di adeguata sensibilità da parte degli insegnanti che lo
bocceranno. Marco proseguirà gli studi
senza problemi e senza ostacoli e come i tre fratelli più grandi dal canto
loro, troverà abbastanza presto la sua strada. Camillo soffriva probabilmente,
perché non rendeva negli studi quello
che la famiglia si sarebbe aspettata da lui, o, per meglio dire, quello che lui stesso avrebbe voluto dimostrare di essere capace di
fare! E così che dovette insinuarsi in lui quel tarlo della depressione, in gran
parte causato dal complesso d’inferiorità nutrito nei confronti dei fratelli. Questi si realizzeranno presto nella professione come nella vita,
sostenuti dalla fiducia in quei valori in cui credevano e per i quali si
battevano. Non dimentichiamo che Piergiorgio creò e diresse i “Quaderni
piacentini”, rivista che rappresentò, a lungo, un punto di riferimento
imprescindibile per gli intellettuali e i giovani della sinistra
rivoluzionaria di quel tempo. Marco
diventerà regista e, con la collaborazione del fratello Tonino, magistrato, che
lo produrrà, realizzerà il già citato “I
pugni in tasca” con cui si impose all'attenzione della critica e del pubblico
soprattutto di giovani cinefili entusiasti. Già in quel film, in parte
autobiografico, l’esordiente autore condanna la grettezza della provincia, la famiglia,
microcosmo della società della quale
riflette in pieno i difetti. Tutti temi
questi che Bellocchio svilupperà in altre opere e che non mancano neanche in
questo film, dedicato alla sua, di
famiglia. Il colore che sceglie per tradurre in immagini il suo vissuto gli è
complice nel rendere quell'atmosfera non proprio mai serena della sua casa,
così pure, esso appare fortemente
emblematico di quegli anni tristemente segnati dalla dittatura, dalla guerra,
da tutto quel carico di dolore e di morte che ne fu la conseguenza inevitabile.
Le foto di famiglia, che intercalano i fatti storici, documentano anche momenti
felici, ma su tutte domina e colpisce quello sguardo dolce, malinconico di un
bambino la cui sofferenza, nessuno dei familiari seppe cogliere in tempo. La
madre, angosciata dal grave disturbo psichico di Paolo, il primogenito, non
riuscì ad offrire né conforto né
serenità agli altri figli che crebbero
ossessionati anche dalla sua arcaica concezione religiosa, sempre associata alle fiamme
dell’inferno, a quei sensi di colpa che
esse inevitabilmente generavano e a cui
era difficilissimo poter sfuggire per
intraprendere un più autentico e sano percorso spirituale. Bisogna ammetterlo,
confesserà Marco, “ognuno pensava a se stesso in quel manicomio che era la
nostra casa”! Da essa egli infatti si
allontanerà per primo, abbastanza presto, con l’intento di farsi strada nel
cinema e dare così libero sfogo alla sua creatività. Sarà
regista!
Avrà inizio così per lui, quella fortunata ,
ma meritatissima carriera di cineasta militante , dallo sguardo lucido,
rigoroso e attento a cogliere e a interpretare tutte le sfaccettature della
realtà, mantenendo una posizione sempre coerente con le sue idee politiche e i
suoi principi etici. In questo suo ultimo film, meno politico e più intimista
degli altri, l’autore, con altrettanta onestà, si interroga invece sulla
sua stessa superficialità, sulla sua
leggerezza nel non aver saputo intuire la sofferenza di quell’ ”alter-ego” con
cui aveva condiviso la vita prenatale e
che tanto ora gli manca.
Alla depressione di cui certo Camillo era affetto, Marco
rimpiange infatti, di non aver saputo opporre altro che “cazzate” come lui stesso sarcasticamente le definisce,
slogan sessantotteschi, quegli stessi
con cui si esprimeva la contestazione giovanile dell’epoca. A modo suo,
aveva provato a curarlo, offrendogli una felicità che doveva e poteva, secondo
lui “certamente”, scaturire dall'impegno
politico, dal servire il popolo, dallo sposarne la causa, abbandonando
certezze borghesi e quel modello di vita che vedeva nel “sistemarsi” il perfetto epilogo di una
raggiunta maturità.
“Marx può aspettare” rispondeva Camillo, infatti, abbozzando
un amaro sorriso, sottolineando quasi con un ghigno le sue stesse parole.
Cosa avrebbe voluto, in realtà dire? Voglio ancora
divertirmi? Voglio trovare la mia strada
senza che nessuno me la indichi o mi rimproveri di averla intrapresa? Ma quale
strada voleva trovare?!
Può darsi che volesse
dire più semplicemente : “Siamo fratelli , vogliamoci bene”!
“Marx può aspettare” dunque, Marx, o chi per lui, possono
forse aspettare! Può valere per due fratelli…come per due popoli, affini e non, se la guerra annienta la pace e li rende nemici!
Jolanda Elettra Di Stefano
Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio
Scenografia: Andrea Castorina
Fotografia: M.Chierchi Palmieri- P. Ferrari
Musica: Ezio Bosso
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